Legge di Bilancio 2026: più flessibilità solo sulla carta, poca sostanza per le famiglie italiane

La natalità dimenticata: madri sole e una politica che non ascolta la realtà

Nonostante gli annunci trionfali e i richiami alla “centralità della famiglia”, la politica italiana continua a fare troppo poco, e spesso nel modo sbagliato, per sostenere davvero la natalità. La nuova Legge di Bilancio 2026, che promette di favorire la genitorialità e la conciliazione tra vita privata e lavoro, si presenta come un passo avanti solo sulla carta. Nella sostanza, resta un intervento parziale, più vicino a un contentino che a una riforma strutturale. La novità più sbandierata è l’estensione del congedo parentale fino ai 14 anni del figlio, modificando quanto previsto dall’articolo 32 del decreto legislativo n. 151 del 2001. In pratica, ciascun genitore potrà astenersi dal lavoro fino al quattordicesimo anno di età del bambino, mantenendo però la stessa durata complessiva, dieci mesi, undici se il padre si astiene almeno tre mesi, e la stessa retribuzione ridotta al 30%, con l’80% solo per i primi tre mesi entro i sei anni. Una misura che, a guardarla bene, non cambia la sostanza: la coperta resta corta,e le madri continuano a restare le uniche a pagare davvero il prezzo della genitorialità.

Il problema è strutturale. Le madri, soprattutto quelle non conviventi, si trovano sole a gestire emergenze quotidiane: scioperi scolastici, chiusure anticipate, mancanza di spazi pubblici dove poter lasciare i figli durante i lunghi mesi estivi di agosto e settembre. Gli asili nido e i centri estivi, dove ci sono, hanno costi spesso insostenibili. Così, le lavoratrici finiscono per bruciare i propri congedi nei primi anni di vita dei bambini, senza possibilità di trasferire dal padre la parte non utilizzata. Il padre, nella maggioranza dei casi, non usufruisce né di aspettative né di congedo parentale.

La società è cambiata, ma la legge resta ferma a un modello di famiglia che non esiste più. Crescono le coppie non conviventi, i nuclei monoparentali e le situazioni in cui i padri non condividono domicilio o residenza con i figli, nonostante siano stati riconosciuti. Eppure, le politiche continuano a essere pensate per la famiglia “standard”, ignorando le nuove realtà sociali. Si parla di “flessibilità”, ma quella reale è quasi nulla: le madri fanno salti mortali tra lavoro, figli e incombenze domestiche, mentre le aziende, non obbligate a offrire ulteriori strumenti di conciliazione, spesso chiudono la porta di fronte a richieste legittime. Il risultato è che molte donne, di fronte all’impossibilità di conciliare tutto, finiscono per rinunciare al lavoro. Non per scelta, ma per mancanza di alternative. Ed è così che la natalità crolla: non per mancanza di desiderio di maternità, ma per l’assenza di condizioni reali che la rendano possibile.

La Legge di Bilancio prevede anche incentivi alle assunzioni femminili, una decontribuzione fino a 8.000 euro per chi assume donne con almeno tre figli minorenni, disoccupate da almeno sei mesi, e il diritto di priorità per la trasformazione del contratto a part-time per chi ha almeno tre figli conviventi. Misure che sembrano pensate per una minoranza, più che per sostenere la genitorialità nel suo insieme.

Parlare di congedo fino ai 14 anni, quando la maggior parte delle madri ha già esaurito tutto nei primi tre, appare quasi ironico. È come aggiungere metri a una coperta già troppo corta, senza cambiarne la stoffa. Una politica davvero attenta alla natalità dovrebbe ripartire da qui: dal riconoscere la fatica invisibile delle madri sole, la rigidità dei congedi, la mancanza di strutture di supporto e di una cultura condivisa della genitorialità.

Fino a quando il lavoro di cura resterà un affare privato, e la maternità un costo da sostenere in solitudine, ogni promessa di “rilancio della natalità” resterà poco più di uno slogan.

(di Yuleisy Cruz Lezcano)

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