Quando si parla di genere, spesso ci si imbatte nelle definizioni più disparate, che finiscono anche per essere diverse o contrastanti tra loro. Questo aspetto si amplifica quando abbiamo davanti la teoria della performatività di genere di Judith Butler.
Judith Butler è una filosofa post-strutturalista americana che si occupa di filosofia politica, etica, femminismo, teoria letteraria e teoria queer. Si tratta di una dei personaggi più contestati del panorama filosofico odierno, e parte di queste avversioni sono dovute proprio alla sua teoria della performatività di genere, e al modo in cui ha scisso i concetti di genere e sesso.
Cosa è il genere?
Innanzitutto, per analizzare il concetto su cui si basa la teoria della performatività di genere di Judith Butler, bisogna prima chiarire cosa si intende con il termine gender o genere e la differenza con cosa invece è inteso il termine sesso.
Il sesso è una categorizzazione puramente biologica, mentre il genere è la sua elaborazione sociale. I due termini camminano di pari passo, ma non possono essere intercambiati.
Butler – nel testo Gender Trouble (1990) – definisce il genere il meccanismo attraverso cui vengono prodotte e naturalizzate le nozioni di maschili e femminili, ma potrebbe anche rappresentare lo strumento tramite il quale decostruire e denaturalizzare tali termini. Questa riflessione di Judith Butler pone al suo centro le tematiche nodali del genere, della sessualità, dell’identità e del linguaggio.
La performatività di genere
Con l’espressione “Performatività di genere”, la filosofa americana ci introduce alla sua teoria del genere come forma di performance e non come semplice assegnazione biologica che viene indicata alla nascita.
Judith Butler, nella sua teoria della performatività, analizza come il genere non debba essere ridotto ad una contrapposizione tra essere uomo o donna, né tantomeno mira ad inserire il genere in una prospettiva che si limiti ad una costruzione sociale,
Se ci si soffermasse sulla questione del genere come costruzione sociale, si rimarrebbe incappati in un meccanismo di pensiero legato alla forma stessa della cultura del sesso e, a come, determinati aspetti sociali portino a dover assegnare un determinato genere ad un individuo. Soffermarsi su questa singola linea di pensiero vorrebbe dire ridurre la questione del genere ad una convenzione artificiale intrinseca della società stessa.
Ciò che la Butler cerca di tirar fuori dalla sua teoria della performatività, invece, è strettamente legato ad un concetto che scava molto più a fondo della cultura, della società e della biologia. Butler spiega come la performance che viene messa in scena riguardo al genere sia un concentrato di azioni, pensieri, gesti e parole che vengono ripetutamente messi in scena in un modo così naturale da essersi plasmati ai corpi e alle azioni compiute dagli individui.
Di particolare rilevanza nella teoria della performatività di genere è, secondo Butler, il modo con cui il linguaggio stesso si renda protagonista della scena, poiché la lingua è anche un modo per crearle e dargli forma.
In Excitable Speech (1996) – testo della filosofa mai tradotto in italiano – Butler spiega come la sua teoria della performatività oscilli continuamente tra una concezione teatrale e linguistica, chiarendo come i due tipi di performatività tra corpo e linguaggio vadano ad intrecciarsi tra loro in ogni atto linguistico compiuto dall’individuo, e di come questo diventi poi un atto performativo.
La filosofa americana sostiene che la forza degli atti performativi non derivi strettamente dai rapporti sociali già costruiti, ma dalla recitazione degli atti stessi. Butler sottolinea come il parlare sia un atto corporeo e, di come, risulti nell’intrecciarsi delle due performatività linguistica e teatrale, che rendono il corpo stesso in grado non solo di agire, ma anche di cambiare il contesto stesso che l’ha costruito in precedenza.
Un esempio lampante può essere la figura della butch, ovvero le lesbiche mascoline che si presentano e vanno a relazionarsi in un modo convenzionale a quello della figura maschile in un contesto eterosessuale. La butch, secondo Butler, non imita le norme della matrice eterosessuale in ambito omosessuale, ma bensì le dislocano, attribuendogli performativamente un nuovo aspetto.
La teoria della performatività di genere di Judith Butler, quindi, mette in luce il modo in cui il genere stesso va a costruirsi nel tempo. Considerare quest’ultimo come una costruzione di norme ripetute nel tempo non significa negare la sua essenza, ma quanto più andare a comprendere il modo in cui esso viene pensato.
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