Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf: Linguaggio e relatività

Edward Sapir

Il relativismo linguistico, o meglio, l’ipotesi del relativismo linguistico o di Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, presuppone l’esistenza di tanti assetti cognitivi quante le lingue esistenti al mondo.

L’ipotesi di Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf

L’Ipotesi di Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf prende il nome dai due studiosi che più hanno gettato basi teoriche e ricerche empiriche a sostegno: Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf. Il lato accattivante della questione è che un approfondimento della diversità linguistica potrebbe produrre un’accettazione maggiore e fondata delle stesse diversità umane, scoprire che ciascuno produce un suo universo cognitivo tramite il linguaggio significherebbe giustificare i più diversi modi di pensare così come facciamo con i nostri. La teoria dell’ipotesi di Sapir-Whorf apre la strada verso la complessità di condizionamenti che ognuna delle lingue esercita sui propri parlanti.

Nei decenni, si sono susseguite numerose teorizzazioni e riformulazioni della tesi relativista, dai più scettici ai più estremi, seguaci del cosiddetto determinismo linguistico. Al momento, le teorie linguistiche spaziano ancora molto tra i due estremi ma rimangono generalmente moderate: l’idioma di un individuo riflette, sì, la sua psiche e le sue modalità di pensiero, ma non le ingabbia in alcun modo. L’avidità di sapere che ci caratterizza non trova frontiere innalzate dal linguaggio nativo; certamente, in base alla diversità della lingua straniera, troviamo maggiore o minore difficoltà nell’entrare nel cerchio di un altro popolo e questo è un assunto al quale arriva il linguista Edward Sapir durante i suoi studi, così come riportato da Marco Carassai ed Enrico Crucianelli che curano un volume che racchiude gli articoli principali sulla teoria di Sapir-Whorf: Linguaggio e Relatività, edito nel 2017.

Sapir-Whorf: Linguaggio e relatività
Fonte: IBS

Edward Sapir (1884-1939)

Appassionato di linguistica e grande studioso delle lingue amerindie, fu uno studioso di filologia germanica per poi avvicinarsi allo studio degli idiomi indiani. Sapir, si rende presto conto che in America gli studi linguistici non hanno la rilevanza che meritano se non nei limiti strumentali, c’era bisogno piuttosto di un interesse che potesse sviscerare le funzioni e l’influenza della lingua nella realtà. Secondo lo studioso, ogni lingua esibisce una completezza formale che non ha a che vedere con il lessico della stessa o al suo vocabolario, quanto alla sua forma grammaticale, che fornisce degli schemi o delle configurazioni vincolanti per il parlante, ma aperte a ogni potenziale espressione. Parafrasando, dapprima le forme grammaticali stabiliscono un atteggiamento relazionale con una o più esperienze dell’individuo, generando risposte linguistiche, successivamente si astraggono dalla specifica esperienza, diventano consuetudini e meccanicamente si preparano alle più svariate esigenze comunicative del parlante e a categorizzare successive esperienze. La completezza formale delle lingue, quindi, non pregiudica in alcun modo la loro dilatazione lessicale, tutta la serie di processi di formazione di nuove parole e l’acquisizione di forestierismi. La lingua è, in questo senso, un sistema aperto e modellabile alle esigenze e ha in sé tutte le potenzialità di esprimere un concetto nella misura in cui è contemplato intellettualmente dall’individuo. Tutte le lingue sono configurate per rendere tutte le attività simboliche ed espressive di cui il linguaggio è effettivamente e potenzialmente capace, la tecnica formale di questa attività è il segreto di ciascuna lingua. L’incommensurabilità tra lingue diverse è uno dei lasciti più rilevanti che gli studi di Edward Sapir hanno generato, nodo cruciale degli scritti successivi a nome Sapir-Whorf.

Sebbene la posizione di Sapir è mitigata rispetto alle precedenti, i successivi contributi del suo allievo Benjamin Lee Whorf vanno più nel profondo e si inseriscono in una ricerca di tipo etnolinguistico dando forma alla famosa Ipotesi di Sapir-Whorf.

Benjamin Lee Whorf (1897-1941)

Conosciuto come il principale esponente del principio della relatività linguistica, è stato lui ad aver ispirato la sistematizzazione della nota Ipotesi di Sapir-Whorf. In realtà, la vera e propria formulazione di questa ipotesi non è riscontrata né negli scritti di Whorf, né in quelli di Sapir, ma l’insieme delle loro riflessioni costituiscono il corpo della stessa. L’ipotesi è tutt’oggi in via di dimostrazione e scrutinio, giacché non prende il nome di legge. Whorf, prima di dedicarsi a studi etnolinguistici, vanta una carriera nell’ingegneria meccanica, e ha lavorato per quasi tutta la vita in una compagnia di assicurazioni contro gli incendi. Quel lavoro gli ha consentito di analizzare centinaia di rapporti sulle circostanze causali di incendi ed esplosioni, durante i quali ha avuto modo di imbattersi nei diversi modi in cui la descrizione linguistica dell’evento condiziona certe linee di comportamento. Il fortunato incontro con Edward Sapir avverrà non prima del 1928 e il loro sodalizio diventerà più stabile tre anni dopo, quando Whorf si iscriverà ad un suo corso di linguistica amerindia, il primo tenuto all’Università di Yale. Le lezioni furono l’ispirazione decisiva allo studio del linguaggio uto-azteco e quindi del linguaggio hopi, un dialetto dell’Arizona, considerato la lingua per eccellenza degli scritti di matrice whorfiana.

Nell’articolo Scienza e linguistica (1940) espone la teorizzazione linguistica che sicuramente lo mette in stretta relazione con il suo maestro e che darà corpo alla più famosa Ipotesi di Sapir-Whorf. Un comune denominatore degli scritti di Whorf è la critica alla logica naturale, un’asserzione di forte stampo umanista e illuminista. Egli la paragona a quello che in vari ambiti disciplinari prende il nome di senso comune. La critica è al senso comune inteso in modo assolutistico: un insieme di concetti quali credenze, istruzione, educazione, costume. È un qualcosa di dato apriori, entro cui ci formiamo, agiamo, e pensiamo. Rompere con il senso comune, in ambito sociologico, significherebbe essere un outsider, forse per questo Carassai e Crucianelli, nell’introduzione di Linguaggio e relatività (2017), definiscono tale Whorf stesso.

Egli scrive molto sulla logica naturale, secondo la quale il parlare non sarebbe altro che un processo accidentale grazie al quale trasportiamo le idee che formuliamo precedentemente. Le leggi della logica e della ragione sarebbero, in questo senso, le stesse per tutti e le lingue le esprimerebbero in modi diversi. Addirittura, tra il pensiero e la lingua non ci sarebbe una linea di collegamento diretta quanto una mediazione della logica simbolica, della filosofia o della matematica, uniche discipline in grado di elevarsi direttamente al regno del pensiero: con Whorf abbiamo un rovesciamento di tutto ciò. I fenomeni di una lingua sono, secondo lo studioso, un orizzonte di senso ristretto, diverso da quello di altre lingue straniere, di cui il parlante è inconsapevole, e resterà tale finché non impatterà con l’ingiusta limitazione linguistica a cui è soggetto.

Whorf si scaglia poi contro la fallacia del luogo comune secondo cui un linguista è tale entro la sua mera conoscenza di più lingue diverse come se la competenza linguistica si limitasse a ciò. Egli ritiene, invece, che essa abbia a che fare con la comprensione dei fenomeni di sfondo, dei processi sistematici e della struttura della lingua stessa. La grammatica di ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di riproduzione per esprimere idee ma esso stesso da forma alle idee, è il programma e la guida dell’attività mentale dell’individuo, dell’analisi delle sue impressioni. Per la scienza moderna questo è significativo nella misura in cui nessun individuo sarebbe in grado di agire o di formulare un’idea con assoluta imparzialità. La persona più libera sarebbe il linguista che non solo comprende svariate lingue diverse tra loro ma le comprende secondo le logiche di cui Whorf ha parlato. Da qui, trova fondamento la teoria di Edward Sapir precedentemente formulata: l’intercomprensione linguistica di più osservatori sarebbe direttamente proporzionale al grado di similarità delle lingue che parlano. Dunque, abbiamo una prima delineazione di quella che sarà l’ipotesi del relativismo linguistico o di Sapir-Whorf.

Lo studio interessante ed elettrizzante sulla lingua degli hopi dell’Arizona nordorientale

Dopo un accurato studio, una delle più interessanti intuizioni di Whorf è la mancanza, in lingua hopi, di termini che traducano il concetto tempo allo stesso modo in cui noi indoeuropei lo concepiamo. Le principali forme cosmiche che sottendono alla nostra metafisica della scienza moderna sono lo spazio (tridimensionale e infinito) e il tempo (cinetico e monodimensionale). Due aspetti che nella realtà sono completamente sconnessi, ma in linguistica hanno più punti di forte connessione.

Simmetricamente, due forme cosmiche dominano la metafisica hopi: il manifesto e il manifestantesi, approssimativamente tradotti con oggettivo e soggettivo. L’oggettivo corrisponde a tutto ciò che nel mondo è sensibile, ossia tangibile attraverso i sensi, mentre il soggettivo corrisponde a tutto ciò che è mentale, intellettuale o emotivo. Bisogna però non lasciarci ingannare da ciò che noi traduciamo con soggettivo, ossia una dimensione puramente astratta, giacché per un hopi il manifestantesi è intensamente reale e immanente, anche più del manifesto. Il regno del soggettivo è in questo senso la sede del desiderio intenzionale. Un’interessante traduzione concettuale del manifestantesi, può essere la sua identificazione con tutto ciò che noi intendiamo con futuro: l’insieme delle aspettative positive o negative che un individuo occidentale coltiva a livello psichico.

Altro importante fattore di differenziazione è la classificazione delle forme temporali: mentre noi ci orientiamo tramite un sistema tri-temporale, lo hopi condensa tutte le nostre necessità classificatorie entro un sistema bi-temporale. I nostri passato, presente e futuro sono come allineati su una retta e assorbono caratteristiche prettamente spaziali. Abbiamo così un passato immutabile intriso di immagini posizionato dietro di noi, un presente che comprende tutto il sensibile che si trova dove siamo noi e un futuro fatto da credenze, intuizioni e incertezze davanti a noi. Dall’altra parte abbiamo, invece, l’enfasi sulla preparazione e sull’aspettativa delle cose. Come abbiamo detto prima, uno dei principali assunti della metafisica hopi è il regno del manifestantesi, che noi traduciamo con il nostro futuro: il manifestantesi è un’aspettativa di ciò che potrebbe accadere e tramutarsi in manifesto. Gli hopi sfruttano il presente nel miglior modo possibile affinché possano restare tracce sugli eventi futuri, d’altronde il futuro è il ritorno del giorno appena passato come fosse invecchiato (in meglio o in peggio).

Le attività preparatorie degli hopi mostrano ancora una volta l’esito del loro sfondo di pensiero linguistico con particolare enfasi sulla persistenza e sulla costante ripetizione. Per noi che concepiamo il tempo come un movimento nello spazio, una ripetizione invariata sembra disperdere la propria forza lungo una linea di unità di quello spazio e dunque andare perduta. I verbi del linguaggio hopi non hanno tempi come i nostri, ma hanno forme aspetti e modi: gli aspetti descrivono durata e tendenza mentre i modi servono per relazionare gli avvenimenti in termini di anteriorità o posteriorità. Sappiamo bene, d’altro canto, che la nostra categoria linguistica del verbo ha come caratteristica insita la temporalità e la differenziazione imprescindibile tra tempi passati presenti e futuri.

In conclusione, c’è un’evidente incommensurabilità tra noi e gli hopi, specialmente per quanto riguarda il concetto di spazio e tempo. Quello dello spazio, per noi, assume la proprietà di estendersi semanticamente a concetti non spaziali tramite il linguaggio metaforico mentre per gli hopi rimane puro e sconnesso dal resto. Il concetto del tempo, che per noi è un movimento nello spazio, per gli hopi risulta essere una durata non necessariamente collocata prima o dopo qualcosa: dato empirico di notevole importanza che sottende l’intera Ipotesi di Sapir-Whorf.

L’Ipotesi di Sapir-Whorf ha avuto il merito di uscire dal dogmatismo linguistico e dalle teorie atrofizzate nei secoli circa il linguaggio come puro mezzo: la lingua influenza nettamente il modo di concepire il mondo e viceversa il mondo ne modella dei presunti limiti. Invece di essere semplici burattini della lingua che ci viene inculcata, ne siamo influenzati specialmente per cause storiche, culturali e individuali. La riflessione che ne può derivare è la seguente: nell’era in cui la diffusione mediatica di notizie è il fulcro del nostro esperire, si rende sempre più necessario esorcizzare il modo in cui qualcosa ci viene comunicato per opporre resistenza agli inevitabili smussamenti di pensiero che ne derivano. Nulla di mediato linguisticamente è, perciò, del tutto imparziale.

Fonte immagine di copertina: Pexels

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