Alessandro Manzoni (1785-1873) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo italiano, considerato uno dei padri della lingua italiana moderna grazie al suo romanzo I promessi sposi. Passato dal neoclassicismo al romanticismo, Manzoni ha lasciato un segno indelebile anche nella poesia, in particolare con gli Inni Sacri e le Odi civili. La sua conversione al cattolicesimo influenzò profondamente la sua visione del mondo, ponendo al centro delle sue opere i temi della Provvidenza, della storia e della condizione umana.
In questo approfondimento:
Le 3 poesie in sintesi: un percorso tematico
Poesia | Tema manzoniano chiave |
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Il cinque maggio | La Storia e la Provvidenza: la vicenda umana di Napoleone letta in chiave divina. |
Autoritratto | La riflessione sull’identità: la percezione di sé in attesa del giudizio del tempo. |
Alla Musa | Il ruolo della poesia: la ricerca di una via originale rispetto ai grandi modelli del passato. |
Testo e analisi delle poesie più belle
1. Il cinque maggio
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie’ mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.
Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
e d’indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.
Analisi: scritta di getto alla notizia della morte di Napoleone (5 maggio 1821), questa ode è una profonda meditazione sulla gloria terrena e l’intervento della Provvidenza. Manzoni non giudica l’operato di Napoleone (“Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza”), ma ne contempla la parabola umana: dalle vittorie folgoranti all’esilio solitario. La grandezza dell’uomo, segnata da trionfi e cadute, trova un senso solo nell’intervento finale di Dio, che lo soccorre nella disperazione e lo eleva a una dimensione eterna. La vera vittoria non è quella sui campi di battaglia, ma quella spirituale, ottenuta attraverso la Fede.
2. Autoritratto
Capel bruno: alta fronte: occhio loquace:
naso non grande e non soverchio umile:
tonda la gota e di color vivace:
stretto labbro e vermiglio: e bocca esile:
lingua or spedita or tarda, e non mai vile,
che il ver favella apertamente, o tace.
Giovin d’anni e di senno; non audace:
duro di modi, ma di cor gentile.
La gloria amo e le selve e il biondo iddio:
spregio, non odio mai: m’attristo spesso:
buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.
A l’ira presto, e più presto al perdono:
poco noto ad altrui, poco a me stesso:
gli uomini e gli anni mi diran chi sono.
Analisi: questo sonetto giovanile è una riflessione sull’identità. Manzoni si descrive attraverso una serie di tratti fisici e morali, spesso in antitesi (“duro di modi, ma di cor gentile”; “a l’ira presto, e più presto al perdono”). L’autoritratto rivela un’anima complessa e consapevole della propria indeterminatezza (“poco noto ad altrui, poco a me stesso”). La conclusione affida al futuro, “agli uomini e agli anni”, il compito di definire la sua vera identità. È l’ammissione che la conoscenza di sé non è un dato di partenza, ma il risultato di un percorso di vita.
3. Alla Musa
Novo intatto sentier segnami, o Musa,
onde non stia tua fiamma in me sepolta.
E forse a somma gloria ogni via chiusa,
che ancor non sia d’altri vestigi folta?
Dante ha la tromba, e il cigno di Valchiusa
la dolce lira; e dietro han turba molta.
Flora ad Ascre agguagliosse; e Orobbia incolta
emulò Smirna, e vinse Siracusa.
Primo signor de l’italo coturno,
te vanta il secol nostro, e te cui dico
Venosa il plettro, e chi il flagello audace?
Clio, che tratti la tromba e il plettro eburno,
deh! fa che, s’io cadrò sul calle ascreo,
dicasi almen: su l’orma propria ei giace.
Analisi: in questo sonetto, Manzoni si rivolge alla Musa della poesia chiedendole di indicargli un “novo intatto sentier”. Il poeta si confronta con i giganti della tradizione letteraria (Dante, Petrarca, Orazio, Alfieri, Parini) e si chiede se sia ancora possibile raggiungere la gloria percorrendo una via originale. La sua preghiera finale è una dichiarazione di poetica: anche in caso di fallimento, desidera che gli sia riconosciuto il merito di aver seguito un percorso personale (“su l’orma propria ei giace”). È l’affermazione della necessità per l’artista moderno di trovare una voce autentica.
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Articolo aggiornato il: 27/08/2025