Cheerleading: l’evoluzione di uno sport oscuro

Cheerleading: l'evoluzione di uno sport oscuro

Cheerleading: dal verbo to cheer e dal sostantivo leader, letteralmente, incitare il leader.

Sono le kick-ass girls delle serie tv americane, le stesse che al grido di «Hands on your hips, a smile on your lips, spirit in your heart, we’re ready to start» rispondono senza esitazione. È il secondo sport più praticato negli Stati Uniti, ma sul mondo del cheerleading c’è ancora troppa poca chiarezza.

In America, il cheerleading è la quotidianità e la figura della cheerleader è diventata iconica, tanto che Hollywood non ha esitato un attimo ad accendere i riflettori su queste ragazze: belle, snelle, dal carattere forte e grintoso, quelle dai muscoli di ferro che riescono a reggersi con un solo piede alla fine di una piramide umana. Tra i film più celebri possiamo ricordare Bring it on con Kirsten Dunst che prima di essere un’attrice era proprio una cheerleader, il telefilm Heroes o, ancora, Hellcats con protagonista Ashley Tisdale, e con questo nome non possiamo far altro che pensare alle iconiche divise rosse dei Wildcats, giocatori di basket presenti nel cult Disney High Scool Musical di cui la Tisdale è co-protagonista. Tornando indietro nel tempo, esattamente nel 1978, c’è Grease, con l’amatissima Olivia Newton John.

Tuttavia, la storia del cheerleading nasce diversamente da quello che ci potremmo aspettare.

La nascita del cheerleading

I primi incitamenti da parte delle tifoserie si ebbero nel 1880, negli Stati Uniti, durante una partita di football tra la squadra di Princeton e quella dei Rutgers: il pubblico in delirio iniziò a cantare per incitare la propria squadra. Il 2 novembre 1898, però, un giovane studente dell’Università del Minnesota, Johnny Campbell, si alzò dagli spalti e iniziò a dirigere il tifo urlando: «Rah, Rah, Rah! Ski-u-mah, Hoo-Rah! Hoo-Rah! Varsity! Varsity! Varsity, Minn-e-So-Tah!» e fu così che, in un giorno qualunque, durante una partita qualunque, per mezzo di uno studente fiero della sua squadra, nacque il cheerleading.

Poco dopo l’Università del Minnesota organizzò una squadra di sei studenti maschi, i cosiddetti yell leader, che durante le partite usarono i cori di Johnny per incitare la propria squadra alla vittoria. Successivamente, nel 1903, nacque la prima organizzazione di cheerleading, la Gamma Sigma. Ancora una volta, un uomo si distinse nell’ambiente del cheerleading. Infatti, l’inventore dei famosissimi pon-pon fu il cheerleader Lawrence Russell Herkimer, studente della Southern Methodist University che, oltre ad aver inventato i pon-pon ed oltre ad essere l’ideatore del salto più iconico di questo sport, il salto Herkie, ha anche fondato, nel 1948, la National Cheerleaders Association (NCA).

A partire del 1923 la presenza femminile divenne predominante. Dagli anni ’60 la National Football League (NFL) cominciò ad organizzare squadre di cheerleading organizzate, delle vere e proprie supporters ufficiali dei vari team. I primi dell’NFL ad avere la propria squadra di cheerleaders furono gli allora Baltimore Colts, oggi conosciuti come Indianapolis Colts. Ma la cheerleading mania è esplosa negli anni ’70 con le ragazze dei Dallas Cowboys che hanno impressionato e affascinato tutti con i loro costumi, le loro coreografie mozzafiato e che con i loro sorrisi sempre presenti hanno fatto la storia.

Le regole da rispettare nel cheerleading: dove inizia il terrore 

Tuttavia le regole sono rigidissime e vanno rispettate nei minimi dettagli: bisogna essere maggiorenni, scolarizzate, stipendiate o sposate, ci sono limiti di peso e controlli drastici sul vestiario e sugli atteggiamenti in pubblico e online. E qui arriviamo alla parte oscura del cheerleading, quella che viene ben nascosta, quella su cui i riflettori vengono spenti.

Negli anni ’80 le uniformi diventano più succinte, le coreografie sempre più complesse e gli infortuni sono all’ordine del giorno, così l’Association of Cheerleading Coaches and Advisors (AACCA) cominciò a prendere provvedimenti e a pretendere norme e standard di sicurezza per le cheerleaders. Nel 2003 fu poi fondato il National Council for Spirit Safety and Education (NCSSE) per offrire agli atleti standard di allenamenti sicuri a cui gli allenatori devono attenersi. Nel 2020 Netflix ha rilasciato un documentario di sei puntate, Cheer, in cui viene raccontata tutta la fatica, fisica ma anche psicologica, a cui vengono sottoposte queste ragazze. Un racconto duro, crudo e spietato che ci mostra la realtà che si cela dietro quei sorrisi a cui siamo abituati.

«FLY HIGH, DO OR DIE, DARE TO DREAM, CHEER EXTREME!»

Ma l’oscurità che si cela dietro questo mondo non è semplicemente legata agli infortuni: la libertà di queste ragazze è limitata, controllata e censurata. Da qui arriva la denuncia di Bailey Davis, ex cheerleader dei New Orleans Saints, la quale rivela a tutti gli effetti come nel mondo del football e, di conseguenza, in quello del cheerleading, ci siano delle vere e proprie forme di discriminazione. In un articolo di Vanity Fair vengono esplicitate proprio le politiche di anti-fraternizzazione a cui sono sottoposte queste donne: nessun contatto è permesso, né dal vivo né tantomeno online. Bailey Davis a proposito dice: «Se al ristorante arriva un giocatore, siamo noi a dover lasciare il locale» e, per di più, se le ragazze hanno il divieto anche solo di scrivere ai giocatori sui social, quest’ultimi, al contrario, sono liberi di scrivere loro anche usando appellativi e pseudonimi inappropriati. Nei Saints, le ragazze sono obbligate a tenere privati i loro account Instagram, a vestirsi in un certo modo e a comportarsi come da contratto. L’unica concessione? Dire «Bella partita!». Bailey Davis allora ha denunciato tutto e si è presentata alla Equal Employment Opportunity Commission, un’agenzia federale che si occupa di far rispettare le leggi contro la discriminazione sul lavoro perché se devono esserci delle regole, allora è giusto che valgano per tutti.

E come Bailey anche le First Ladies of Football, prima conosciute come le Redskinettes, gruppo di cheerleaders fondato nel 1962, sono state messe in pausa. Il Washington Football Team, ex Redskins, ha dichiarato di voler rivedere il suo team di cheerleaders con un’ottica più inclusiva, creando un nuovo corpo di ballo che si allontani dalla tradizionale idea delle cheerleaders, fondendo l’atletica delle ragazze pon-pon con l’hip-hop, il jazz e attrezzi di scena dei ballerini. Tutto ciò è avvenuto in seguito a una denuncia da parte delle ragazze che hanno accusato i dirigenti di averle costrette a partecipare a serate per gli sponsor con la prospettiva di un guadagno extra se si fossero prestate sessualmente. La ex manager della squadra di ballo Laker Girls della NBA, Petra Pope, che ha preso sotto la sua ala il nuovo gruppo di ballo del WFT, assicura che d’ora in poi ci sarà il rispetto per la persona e per il lavoro svolto e che l’inclusività sarà la parola chiave così da creare una squadra che rispecchi la modernità a cui siamo arrivati nel 2021. 

La riammissione dei Male Cheerleaders

Nel frattempo, finalmente, dopo sessant’anni di sole donne nella NFL, sono arrivati i primi tre male cheerleaders – i cheerleader uomini – per due squadre a Los Angeles e a New Orleans, per favorire la parità di genere. Si tratta di tre giovani ragazzi: Quinton Peron, Napoleon Jinnies e Jesse Hernandez. Da quest’anno, inoltre, Peron e Jinnies, passeranno alla storia per essere stati i primi male cheerleaders, in più di 50 anni, ad esibirsi durante il Super Bowl. 

Al giorno d’oggi, pur rimanendo uno sport tipicamente americano, il cheerleading è presente anche in Italia, in modo molto più leggero, senza pressioni ma con la voglia di far vedere che anche l’Italia è presente e sa come si gioca. Si può dunque facilmente intuire che il mondo del cheerleading non è solo sorrisi e paillettes e neanche quello delle belle ragazze un po’ bossy che vediamo in tv, ci sono tanti lati oscuri a cui non viene data la giusta importanza e noi, da spettatori passivi, possiamo solo augurarci che le cose cambino presto. 

Fonte immagine: Pixabay

A proposito di Di Costanzo Mariachiara

Mariachiara Di Costanzo, classe 2000. Prossimamente laureata in Lingue e Culture Comparate all'Università degli Studi di Napoli L'Orientale. Appassionata di moda, musica e poesia, il suo più grande sogno è diventare redattrice di Vogue.

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