La stagione 2021/2022 al Bellini ha finalmente un magistrale inizio con l’irriverente Don Juan in Soho di Gabriele Russo ad inaugurare la Sala Grande e renderla la sua Soho dal 20 Ottobre al 7 Novembre.
Soltanto avvicinandosi al teatro Bellini è stato possibile percepire un’onda di adrenalina pronta a travolgere il pubblico di entrambi gli spettacoli, entrambi perché quasi insieme alla Sala Grande anche il Piccolo ha inaugurato la sua stagione. Tra movimenti frenetici, chiacchiere, risate, la gioia di ritornare a teatro nonostante green pass e mascherine è più travolgente che mai per il teatro pieno, non in una, ma in due sale; quasi un sogno dopo il periodo, non ancora del tutto terminato, della pandemia.
Se la stagione è stata presentata dal Bellini stesso come un “Work in progress”, dopo la visione del Don Juan è ben chiaro che la frase vuole essere privata del suo significato di “qualcosa in corso di costruzione” e significare piuttosto un “meraviglie in corso”. Insomma, il Bellini riparte in quarta e in modo impeccabile con la minima cura per ogni dettaglio, da non lasciare inosservate infatti sono le maschere che, tra volantini in stile vintage riportanti le note di regia e controlli alle certificazioni verdi, sfoggiano un completo verde petrolio e una blusa con la stessa fantasia della vestaglia che indosserà Don Juan con tanto di iniziali DJ nella trama della stoffa.
Il testo
Le premesse di questo spettacolo sono accattivanti, così come le note di regia di Gabriele Russo che prova a preparare il pubblico, ma le parole non bastano a descrivere la maestosità dello spettacolo che si appresta ad assistere. Don Juan in Soho, ispirato al Don Giovanni di Molière, è un testo dell’inglese Patrick Marber che riprende la satira, i personaggi e alcune delle intenzioni di Molière e li ripropone in forma moderna prima nel 2006, per poi rimaneggiarlo nel 2016. L’ambientazione scelta da Marber è Soho, il quartiere a luci rosse londinese, che fa da contorno adatto per le nefandezze di un Don Juan fedele alla sua natura fino alla fine.
Lo spettacolo
Al calare delle luci in sala, le aspettative sono sempre più grandi e continuano ad essere alimentate. Eppure, contro ogni aspettativa, il pubblico si ritrova davanti ad un Don Juan morto e tutti i personaggi, emblemi di differenti stili di vita, che si avvicinano come mosche al miele – come sottolineato dal sottofondo sonoro – o, per citare Colm, “come una mosca al buco del c**o di un cavallo”. Dopo questa silenziosa scena, la magia innescata dalla semplice, ma geniale scenografia di Roberto Crea ha inizio. Un palcoscenico sul palcoscenico, il rettangolo nero su cui si posano gli attori inizia a ruotare mentre gli attori corrono confusamente, un perfetto rewind, come se qualcuno stesse riavvolgendo il nastro di una pellicola già vista, un circolo infinito, una sorta di carosello che gira, ma invece di cavalli e carrozze, spettacolarizza i piaceri di Don Juan. Il linguaggio è un altro dei punti chiave dello spettacolo, volgare fin da subito, marcato da accenti e cadenze aderendo perfettamente alla realtà quotidiana di ognuno degli spettatori. E mentre il carosello gira, dall’alto vediamo scendere altri pezzi della scenografia, un divano e delle tende che raffigurano il foyer di un hotel. La prima scena smaschera subito non solo il vizio della carne di Don Juan, ma il primo ad essere un portatore di morale e di vergogna insieme è il suo servo Stan, un parassita opportunista, tanto ricorda al DJ i suoi peccati, quanto è pronto ad assecondarlo, servirlo e riverirlo, così come a tradirlo mentre confessa subito al cognato Colm dove fosse, ma soprattutto cosa stesse facendo e con chi.
Dopo aver “s**pato una super modella croata” finalmente arriva in scena ballando sul ritmo di edamame e pavoneggiandosi Don Juan, irriverente, amorale, narciso, ebbro dei piaceri della carne e già nuovamente affamato. Daniele Russo porta in scena alla perfezione quest’uomo che si identifica come una tr*ia, il cui unico scopo è godere dei piaceri del sesso, cercando di godere ad ogni costo, senza curarsi della scia di dolore che lascia nelle vite degli altri. Elvira, sua moglie, è quella forse più addolorata di tutti, attivista dei giorni nostri che viene conquistata dalle bugie di DJ durate due anni tra opere benefiche varie, con il solo scopo di deflorarla e poi gettarla via e schernirla per il suo stile di vita green. La stessa Elvira definirà il marito un poeta della carne, donna più consapevole adesso, che cercherà fino alla fine di portare DJ su una via più ragionevole; nonostante i suoi fratelli siano determinati a porre fine alla vita del consorte. Sempre affamato di sesso, Don Juan si farà portatore a sua volta di critiche e satire alla società, sempre eliminandosi dallo schema, come la critica alla categorizzazione delle persone nel database tanto caro a Stan, non etero o omo, tutti dovremmo rientrare nelle sole categorie di “s**pabili o insc*pabili” e “conquistabili e inconquistabili” ed è questa l’unica ricerca che vuole perseguire. Prende poi di mira la società schiava dei social, che condivide ogni parte di sé pregando per un like, un tag, un follow, ma senza farsi mai veramente conoscere; mentre pone se stesso come un homo sapiens che morirebbe pur di farsi una bella s**pata, che non chiede scusa, che pretende di essere libero nella scelta del suo stile di vita dedito all’alcol, alla droga, al sesso e ad ogni tipo di dipendenza.
Il pubblico assiste a scene profondamente comiche quanto assurde come il tentativo, da parte di Juan, di conquistare in ospedale una donna il cui marito è in fin di vita a causa sua, mentre sotto una coperta riceve da Lottie una fellatio. La sensualità femminile, per quanto le donne vengano oggettificate da DJ e talvolta smascherate negli atteggiamenti arrivisti, è portata ad un livello altissimo nello spettacolo in cui si assiste a diverse scene di nudo tra luci ed ombre, così come sono nude le due prostitute che assisteranno nella turbinosa scena della statua che viene a richiamare Don Juan, in procinto di chiudere il cerchio.
Scelto da Gabriele Russo dopo una riflessione durante i mesi di pandemia, come egli stesso afferma, il suo Don Juan in Soho vuole mostrare tutta l’ipocrisia, l’indifferenza e lo squallore sottolineati da Molière e mostrare con quanta naturalezza gli attori riescano a rientrare nei ruoli recitando meno di quanto farebbero nella vita reale. La società ed ogni suo archetipo è messo in discussione, ma quando Don Juan sceglie di morire scegliendo la sua libertà di vivere come preferisce senza piegarsi a scuse non sentite, molti interrogativi sorgono nelle menti dell’audience. Verrebbe da dire quasi una satira nella satira, in cui nessuno è escluso dalla ferocia dell’essere sbugiardati, ironizzati, analizzati e messi in dubbio, neanche lo spettatore che tra le risate non potrà non interrogarsi sull’integrità del Don Juan e quanto questa possa sembrare convincente, ma fino a che punto può egli spingersi ad abusare delle integrità altrui? Fino a che punto possiamo farlo noi?
Foto: Mario Spada