Malacrescita di Mimmo Borrelli al Bolivar | Recensione

Malacrescita al Bolivar

Il 21 gennaio va in scena al Teatro Bolivar Malacrescita, scritto, diretto, e interpretato da Mimmo Borrelli.

Il poliedrico artista partenopeo stupisce ancora una volta il pubblico, tra musica e parole racconta storie ataviche, senza tempo, riuscendo a farci respirare tutta la magia e il mistero di una Napoli sotterranea, ormai sommersa sotto strati di apparenza, incancrenita, ma ancora desiderosa di vivere e di parlare.

Malacrescita è uno spettacolo tratto da La Madre: i figlie so’ piezze ‘i sfaccimm, tragedia scritta dallo stesso Mimmo Borrelli. Mentre prendiamo posto in teatro, salta subito all’occhio la presenza di due figure ingombranti, sedute a terra sulla scena, immobili, di spalle, l’una da un lato, l’altra dall’altro, agli antipodi del proscenio. Sono Mimmo Borrelli e Antonio Della Ragione, co-interprete della messinscena, polistrumentista, e incarnazione vivente di un suono narrante.

Malacrescita è la storia di una madre, una Medea ancestrale, proveniente dai bassifondi, che non uccide i suoi figli con un colpo netto, ma gradualmente, ubriacandoli, contaminando le loro vite per sempre, insozzando la loro purezza di infanti. Mimmo Borrelli, in un’intervista, racconta che ogni sua parola scritta prende ispirazione da una storia vera.

Non è difficile pensare che sia realmente esistita una madre così crudele, una madre che, però, ha subito, a sua volta, violenze e abusi di ogni genere. La storia è sanguigna, viscerale, ai limiti del melodrammatico, ma reale.

Il dialetto è quello flegreo, il testo è scritto in versi, la rima e il ritmo sono scanditi dagli endecasillabi.

Mimmo Borrelli è solo al centro della scena, accompagnato dal suo fedele musico, uomo discreto, seduto all’estremità del palcoscenico, che parla attraverso le note, delicate, della tradizione.

Il gusto dei componimenti è a metà tra l’arcaicità e una sperimentale ricerca del suono, condotta con curiosità quasi fanciullesca. Si tratta di ritornelli che richiamano un’atmosfera tra il vecchio e il bambinesco.

Mimmo Borrelli è, infatti, un uomo-bambino che fa i conti con i propri traumi, e si mette a nudo, letteralmente si spoglia e urla, per tirare fuori da dentro il marcio.

In Malacrescita, delicato e tormentato, insopportabile e giocoso, è il “popi-popi” ininterrotto del pupazzo, con il quale il bimbo, ormai cresciuto, forse, un tempo amava giocare, e che, nello spettacolo, si trasforma in strumento musicale, onomatopea e ricordo. Una trovata inedita, che porta la firma del Maestro, come ogni dettaglio presente sul palco.

Colpisce anche la scenografia di Malacrescita, per la semplicità e la tristezza che evoca. Esprime l’abbandono e la noncuranza di una madre, che non prova nessun istinto materno, le cui viscere hanno il sapore di morte. Ci troviamo di fronte a bottiglie vuote e aperte, con fiori grandi e appassiti, e i boccioli rivolti verso il basso.

Per seguire Mimmo Borrelli sulla scena ci vorrebbero mille occhi, perché ha il dono dell’ubiquità, è a destra e a sinistra, occupa il centro della scena, ma è capace anche di farsi piccolo piccolo, fin quasi a scomparire, come un bimbo che vorrebbe tornare a essere un feto nel grembo materno.

In Malacrescita si riconosce appieno la cifra del teatro di Mimmo Borrelli: un teatro totalizzante, a tuttotondo, che riesce ad abbracciare ogni espressione del fare artistico, anche quella apparentemente più reietta, legata a una lingua, che pochi ancora comprendono.

In Malacrescita, Mimmo Borrelli raccoglie il malvagio da terra, la spazzatura, e li trasforma in bellezza.

Il male diventa miracolo, un’esplosione di talento attoriale e arte popolare.

Il Bolivar applaude in piedi il Maestro.

Fonte immagine di copertina: ufficio stampa

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A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l’Università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna.

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