Museo del Popolo Estinto di Enzo Moscato al Campania Teatro Festival

Museo del Popolo Estinto

“Museo del popolo estinto” è il nuovo progetto scenico di Enzo Moscato che ha debuttato il 29 e 30 giugno a Capodimonte per il Campania Teatro Festival.

Composto da vari frammenti testuali, autonomi e nello stesso tempo interdipendenti tra di loro, il plot narra dell’odierna città di N.* (e, con essa, quasi tutte quelle dell’universo mondo) che, travolte dalla negatività e dal debordo, noir, civile, storico, estetico, morale, si sono lasciate con indolenza investire negli ultimi tempi ammalandosi e impestandosi. 

Sul palco vediamo Benedetto Casillo, che s’impossessa dei racconti e li frantuma come giocattoli affidati all’umore e ha gesti dispettosi e sguardo ironico; e ancora Vincenzo Arena, Tonia Filomena, Amelia Longobardi, Emilio Massa, Anita Mosca, Antonio Polito, pronti a scatti di tono e di pensiero, avvolti da dubbi e sussulti, irritanti per salti logici e consolanti per sperdute certezze. E tra tutti, grande orchestratore di frammenti ritrovati e messi insieme come per costruire un nuovo “mostro” fatto coi pezzi mal combacianti, c’è Moscato attore nel suo dimesso scegliersi spazi per commenti e nel suo sgomitolare il filo che conduce nelle stanze del suo labirinto composto in sette segmenti che s’intersecano: inquietante protagonista, poeta, drammaturgo, attore, regista, intellettuale di raffinata provocazione del linguaggio e della messa in scena.

Il “Museo del Popolo Estinto”: il “Museo” del Teatro che fu

Come si fa a mettere in scena il nulla?

Infatti, se si tratta (come introduce Moscato) di esporre «la messa a punto e la visione della progressiva ma inarrestabile estinzione, di popolo e di cultura, della “gens neapolitana”», con ciò si espone per l’appunto il nulla, proprio come in un museo: dove ci si mostra non la vita in atto, ma un’antologia più o meno esaustiva dei reperti o relitti della vita di un altro tempo, di epoche spesso lontanissime da noi.

Il «Museo» a cui qui allude Moscato («crudelissimo», lo chiama) è anche e specialmente quello del Teatro che, nell’esporre la nuda verità, non dovrebbe e non potrebbe essere mai reticente e connivente con ciò che viene detto “il degrado e a cui è rimasto solo la disperazione” e una lingua che si prefigge un solo, totalizzante scopo, quello di fare a pezzi le parole della tradizione, di una tradizione malintesa e diventata a sua volta un «museo».

“Museo del Popolo Estinto” è uno spettacolo che vuole raccontare di una città che dilata il suo spazio ben oltre il confine delineato dalla geografia e scolora, irritante e proterva, nell’universo a cui Enzo Moscato si avvicina ogni tanto, alimentando la sua vena per critici sussulti della rappresentazione e della storia. Lo fa ancora una volta, secondo il suo costume, costruendo sintassi frantumate, compiendo il suo lavoro di archeologo del proprio tempo e cronista di un passato che l’alimenta.

Compie il suo viaggio pronto all’incontro con altri viandanti, incamminandosi in compagnia dell’amato Antonin Artaud, alla ricerca di una “vendemmia di sangue” che può essere nutrimento ed è fatale alimento per una città di morti che ritornano in vita. Incastra fili e pezzi di puzzle per ricomporre fratture che si potrebbero paradossalmente ancora sanare, salvare, rivivificare, ma solo attraverso l’andare e il venire in noi della memoria, (o della “sostanza del teatro). Che dovrebbe eticamente avere l’osare di una parola nuova, sussurrata, urlata (o, almeno il suo tentativo) la quale ponga finalmente le premesse per uno sperabile e prossimo e perdurabile, risolutivo – “RESURGAM” di tutti quanti: uomini, animali, cose, insieme.

E lui osa, (ancora una volta, con l’ausilio scritturale dell’autorevole voce di Antonin Artaud) dispiegando, tra sintagmi e fonemi, significati e significanti, una sinistra e respingente, ma necessaria, fascinazione: quella che proviene dalla visione obbiettiva di quella che Moscato stesso definisce “putredine e il male odore, di un corpo cittadino (fatto di pietre e sangue, di massi e di carni, di frasi e di silenzi) che un tempo fu propositivo e glorioso”, e che oggi è soltanto roba da mettere in un doloroso, personale, affollato cimitero o museo della memoria.

“Museo del Popolo Estinto” è uno spettacolo organizzato per opposti. Scandito dal metronomo della presenza/assenza in scena dell’autore, affianca, poniamo, leggii coperti di rose rosse a porte sormontate dai brandelli di quelle che chissà quando furono tende, «Les feuilles mortes» a «Totonno ‘e Quagliarella». E la prova superba di Benedetto Casillo, lacerto prezioso per l’appunto, di una tradizione perduta, si svolge fra le sortite che destano a una vita effimera gli altri interpreti, simili, proprio, alle statue di un museo, strappate al buio e al silenzio dei secoli solo per i pochi minuti in cui sosta davanti ad esse la guida turistica.

Finisce come non poteva non finire. Enzo Moscato scende dal suo sgabello dietro il leggìo e spara un colpo di pistola in testa a ciascuno degli attori. Lo stesso che accadeva nel 1982 in «Signurì, signurì…», quando, nell’ultima scena, il personaggio che aveva appena detto «Ha da passa’ ‘a nuttata» veniva immediatamente freddato con una rivoltellata alla tempia.

 

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