Villa Pignatelli saluta la mostra fotografica OpenHeArt

Villa Pignatelli saluta la mostra fotografica OpenHeArt

Con la giornata del 2 febbraio termina l’esposizione OpenHeArt, dal 7 dicembre ospite della Casa della Fotografia di Villa Pignatelli.

La fotografia è uno strumento autoptico. Se da un lato infatti il filtro della lente crea il profondo scarto semiotico tra l’oggetto e la sua riproduzione, mutano insieme all’occhio dell’osservatore la scelta dell’osservato e il modo dell’osservante. L’evento in sé è di invidiabile unicità, un dono da custodire. Questa la parola che Antonio Biasiucci, artista della memoria vesuviana, associa alla fotografia. Memore degli insegnamenti del maestro e amico, l’attore e regista di teatro Antonio Neiwiller, Biasiucci è sensibile allo strenuo scavo del viaggio nell’io, e al potere dell’arte quale sonda. Ed è per questo che afferma: «capii che la fotografia era un mezzo senza limiti e al tempo stesso una pratica esistenziale capace di stare perfettamente in sintonia con il mio mondo interiore». Biasiucci antepone alla concezione della fotografia-documento umano quella di fotografia-journal intime, valorizzando il brulicare della vita impressa su lastra, «rivelazione di qualcosa che è già dentro di te e che in quel momento riconosci come tuo».

OpenHeArt a Villa Pignatelli

La mostra fotografica OpenHeArt (Villa Pignatelli, 7 dicembre – 6 gennaio, prorogata al 2 febbraio) nasce da queste consapevolezze. Il laboratorio sorge dal contatto di quelli che Biasiucci definisce «ventisette sguardi autonomi». Giovani artisti ed emergenti nel settore museale si sono uniti per un progetto corale che si è nutrito dell’eterogenea dimostrazione di una spontanea veridicità.

Una delle gravosità della pratica espositiva, rivela Federica Palmer, tra i membri dei quattro laboratori convogliati nel progetto, è stata infatti quella di equilibrare la potenza emotiva profusa dagli artisti nelle proprie opere, accompagnando il visitatore talvolta con delicatezza, altre con una spinta energica, nelle menti dei fotografi. Il dialogo si è instaurato tra talenti nascenti e affermati, nella consapevolezza da parte di Antonio Biasiucci della necessità di un laboratorio per i giovani. Sarebbero loro i più inconstanti in materia di continuità nel medesimo soggetto considerato. L’esposizione collettiva costringe alla selezione di un numero ridotto di opere tratte da progetti più ampi, il che se da un lato risulta gratificante per i responsabili dell’esposizione nel momento dell’effettiva riuscita del percorso, dall’altro costringe tanto queste figure quanto quelle dei fotografi a un lavoro di concentrazione di energia nello spazio vitale di poche cornici.

OpenHeArt è il risultato di un’organicità schizofrenica, che vede come unico filo conduttore la tematizzazione della personalissima percezione di cosa voglia dire intimità: dallo studio ravvicinato e meticoloso del microcosmo anatomico (in comparazione spesso con la grande potenza del macrocosmo natura), agli spaccati quotidiani di vita familiare. La ricerca dell’intimo non comporta il destino ermetico di un respiro strozzato. Ognuno ha ricercato la propria dimensione, per elevarla su un piano universale, sul quale ogni visitatore ha potuto seguire i passi dell’artista per accorgersi poi di calpestare impronte perfettamente corrispondenti alle proprie. La manipolazione della materia trattata arriva spesso a un’astrazione dalla stessa. C’è stato dunque chi si è avvicinato così tanto all’osservato da renderlo irriconoscibile (come Fulvio Ambrosio e Miriam Altomonte), e chi invece ha modificato appositamente la materia per renderla un luogo riconoscibile (come gli interni del polittico di Serena Petricelli). Questi solo alcuni dei nomi associati agli sguardi di cui ha parlato Antonio Biasiucci.

Vige incontrastata la riflessione sulla contorsione del soggetto rappresentato, sia esso uomo od oggetto inanimato, nel persistente dubbio riguardante l’invadenza dell’evento fotografico e la sua tensione a un’autenticità possibile. Il corpo stesso del fotografo è diluito nell’ambiente agognato dalla sua ricerca spasmodica, come suggerisce la materia impalpabile delle opere di Ilaria Abbiento e Chiara Arturo, sospese nel tempo irreale di un paesaggio marino; o ancora tra gli sguardi dei soggetti prescelti, come nel documento di denuncia sociale dall’estrema ironia, Insanity fair di Sara Terracciano, o nella quotidiana Sanità di Ciro Battiloro.

Questo breve frammento di catalogo dimostra come, in quanto legata alla vita, la mostra OpenHeArt non abbia potuto non godere di quello statuto proteiforme che Biasiucci e il suo Laboratorio hanno deciso di donare alla città di Napoli.

Immagine: MANN

A proposito di Carolina Borrelli

Carolina Borrelli (1996) è iscritta al corso di dottorato in Filologia romanza presso l'Università di Siena. Il suo motto, «Χαλεπὰ τὰ καλά» (le cose belle sono difficili), la incoraggia ogni giorno a dare il meglio di sé, per quanto sappia di essere solo all’inizio di una grande avventura.

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