Da 5 Bloods è l’America di oggi secondo Spike Lee

Da 5 Bloods

Da 5 Bloods è l’ultimo film di Spike Lee.

“La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani..”

Martin Luther King

“A Spike Lee joint” è tra le citazioni più identificative e riconoscibili del panorama odierno della settima arte. Guardare un film che riporti quest’affermazione, nei titoli di testa e di coda, equivale a vedere un prodotto dall’impatto emotivo e sociale pressoché certo. BlacKkKlansman, Fa’ la cosa giusta, Malcolm X hanno difatti formato e sensibilizzato generazioni intere ai temi dell’ingiustizia sociale, della segregazione e del razzismo. Spike Lee, più che una vasta produzione cinematografica, potrebbe per l’appunto fregiarsi di un catalogo che rasenta lo storicismo per accuratezza, dedizione alla causa ed importanza artistica.

Dopo aver mostrato il dramma dei soldati afroamericani con lo stroncato Miracolo a San’Anna, il regista di Atlanta, con Da 5 Bloods-Come Fratelli questa volta ha scelto la guerra più mediatizzata e cinematografica di sempre: la guerra del Vietnam, con il suo bagaglio di Việt Cộng, comunisti e anticomunisti, Ho Chi Minh, Richard Nixon e Lyndon Johnson e che paiono letteralmente appartenere ad un’altra epoca.

Ma è proprio l’estrema attualità e attinenza ai giorni nostri a rappresentare al contrario l’aspetto più interessante di Da 5 Bloods. Il film, prodotto da Netflix e girato da Lee un anno fa, calza perfettamente a pennello con le proteste e le rivolte afroamericane delle ultime settimane per la morte di George Floyd. Un fatto di cronaca angosciante che ha mostrato ancora una volta come gli Stati Uniti non abbiano ancora fatto i conti con il problema intrinseco del razzismo sistemico.

Lee, che ha quasi sempre scelto temi politici e sociali per i suoi film, ha così rivoltato completamente una sceneggiatura che girava ad Hollywood dal 2013 e che in origine era destinata ad Oliver Stone. Un film che sarebbe risultato praticamente già visto e sentito, con protagonisti e reduci bianchi alla ricerca di un tesoro nel Vietnam dove avevano combattuto la guerra cinquant’anni prima, pur nelle sapienti mani dell’ottima regista di Platoon e Nato il 4 luglio.

Invece Da 5 Bloods è il primo film ad alto budget a raccontare la storia degli afroamericani mandati a combattere una guerra che, come e più di tutti gli altri, non era neanche la loro. Se nella popolazione americana essi rappresentavano infatti l’11% del totale, in Vietnam il 31% dell’esercito era completamente black.

A Spike Lee joint

Da 5 Bloods è dunque un coraggioso pretesto per fronteggiare tematiche diverse da quelle che potrebbero emergere dalla visione del trailer o da uno sguardo superficiale alla trama. La guerra, la violenza, la morte fanno sì parte del racconto corale di Lee ma non sono il motivo di interesse principale del regista di Atlanta: la storia è solo il presupposto per appellarsi alla sacrosanta, ora più che mai, causa afroamericana. E via alle vicende dei quattro sessantenni neri (i conti non tornano, ma se dal punto di vista di vista dell’accuratezza si perde di credibilità da quello grafico e visivo Lee “spacca”, come si dirà avanti), alla ricerca del tesoro sepolto in Indocina mezzo secolo fa. Agli ordini del “quinto fratello” Norman, l’ormai defunto colonnello eletto a novello Martin Luther King della pellicola.

Più diversi tra di loro non potrebbero essere i quattro reduci protagonisti di Da 5 Bloods. C’è chi è sull’orlo della bancarotta per il fallimento della propria concessionaria (Etis, interpretato da Norm Lewis); chi, dipendente dagli oppioidi, vuole ricongiungersi all’amante dei tempi bellici (Clarke Peters è il volto di Otis). Tra tutti, emerge sicuramente Paul (un ottimo Delroy Lindo), ancora in preda ai demoni del post-Vietnam ed elettore di Trump. Un vero e proprio cortocircuito a livello etico e morale che assume le fattezze di un uomo anziano e che d adito a Lee di analizzare quel Make America Great Again, che spunta sul cappellino di Paul e di cui tanto si discute.

Accompagnato dal figlio David, il rapporto di sangue tra i due costituisce poi una delle tante sottotrame ed elementi portanti di un film che di certo non può dirsi pecchi di abbondanza o materiale di cui discutere. Si aggiunga poi un trio di sminatori europei, guidati dall’affascinante Hedy (Mélanie Thierry), un mediatore francese interpretato da Jean Reno, e la giungla più selvaggia del Vietnam, tra liane e serpenti. L’azione, come da copione, è così servita.

Lee però nel dirigere Da 5 Bloods è stato particolarmente ispirato e ciò lo si intravede anche negli aspetti tecnici della pellicola. Se l’alternanza, comunque limitata per dare maggiore respiro alla storia, tra filmato di repertorio e materiale girato era prevedibile per la storia del regista di Atlanta, più originale è senz’altro l’avvicendarsi tra le vicende passate e presenti dei quattro protagonisti. Che, al contrario di Martin Scorsese e del suo The Irishman, non sono state oggetto del ritocco della computer grafica, ma inversamente hanno visto le interpretazioni degli attori originali. Senza neanche la presenza di uno stunt-man o di una controparte più giovane. Isiah Whitlock Jr., Norm Lewis, Clarke Peters, Delroy Lindo sono infatti sia i giovani commilitoni degli anni settanta che gli anziani in vacanza del giorno d’oggi, e Lee sceglie un uso diverso del mezzo cinematografico onde evitare confusioni spaziali e temporali.

Si alternano così sapientemente scene girate in 16 mm e schermo molto più quadrato, in 4:3, e l’utilizzo del widescreen che a differenza del precedente caratterizza il giorno d’oggi. Una scelta che potrebbe sembrare confusionaria, frutto di pigrizia o mancanza di investimenti ma che invece sottolinea in modo ancora più deciso le sofferenze dei quattro durante la guerra e le influenze che questa ha avuto nel corso degli anni.

La guerra del Vietnam e l’America di oggi in Da 5 Bloods

Spike Lee con Da 5 Bloods ha così firmato uno dei film più coraggiosi della sua carriera già leggendaria. Il regista di Atlanta continuo così imperterrito nel suo cinema dallo stampo sociale e politico estremamente marcato e che ha influenzato generazioni di registi. Si pensi al recentissimo I miserabili, nel quale non è difficile rivedere lo sguardo sempre attuale di Lee nell’opera di Ladj Ly. Da 5 Bloods è uno sguardo a trecentosessanta gradi ed estremamente attuale sulla guerra del Vietnam. Plauso a Lee, tra le tante cose, per il commovente affresco di Tiên, l’amante vietnamita di Otis.

Un aspetto sempre trattato con molta superficialità da parte del cinema bellico, che quasi mai si era spinto con così tanta decisione a ritrarre quella parte di America colonizzatrice e devastatrice che lasciò il segno in Vietnam, alla pari delle mine e del napalm. Si perdono, nella pellicola, i richiami cinematografici (da Apocalypse Now a Il tesoro della Sierra Madre, passando per la commovente colonna sonora composta dall’intero storico album What’s Going On di Marvin Gaye), e questo potrebbe senz’altro aiutare Da 5 Bloods ad arrivare ad un pubblico quanto più ampio e variegato possibile.

Oltre che ai giovani, naturalmente, che forse più di tutti dovrebbero vedere questo film, per farsi un’idea non solo su quello che è stato e per alcuni è ancora la guerra del Vietnam. Forse aiuterà a capire almeno parzialmente da dove vengono la rabbia e la paura di chi in queste settimane sta manifestando per combattere un razzismo sistemico e mai del tutto estirpato. Un virus difficile da sradicare e che permette  di investire di più nelle contee a maggioranza bianca, lasciando le minoranze afroamericane in preda ad un destino di certo non roseo. Perché chi è nato dalla parte più fortunata del mondo e non conosce determinati ambienti certi sentimenti fa ancora molta fatica a comprenderli.

 

Fonte dell’immagine: https://www.facebook.com/netflixitalia/photos/a.1002421313136507/3269390773106205/?type=3&theater

A proposito di Matteo Pelliccia

Cinefilo, musicofilo, mendicante di bellezza, venero Roger Federer come esperienza religiosa.

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