Ecco i sette peccati capitali, dalle origini di Aristotele all’uomo moderno.
Parlare di peccati capitali è il primo errore che si commette quando si affronta l’argomento. È più giusto, infatti, parlare di vizi capitali, ovvero quei difetti caratteriali che volgono l’animo umano verso un’inclinazione comportamentale piuttosto che ad un’altra. Per i cristiani, sarebbero proprio i vizi a causare il peccato, ma è ancora erroneo poiché il peccato non è altro che una conseguenza del vizio.
Per capire a pieno la questione, bisogna analizzare la parola. In latino il termine vĭtĭum, stava a significare la mancanza di qualcosa, che fosse fisicamente o moralmente, una sorta di difetto spirituale. La parola capitalis, invece, indica come tali difetti, alterano la cosa più importante dell’essere umano: la sua testa, il centro che governa ogni cosa.
Accenni di storia
Il primo filosofo a fare chiarezza è stato senz’altro Aristotele, che nel suo trattato Etica Nicomachea, scritto nel IV secolo a.C sosteneva che ogni virtù se portata all’eccesso arrivava a trasformarsi in un difetto, e di conseguenza in un vizio. Da qui si evince la teoria del “giusto mezzo”, a riprova che la frase in medio stat virtus (la virtù sta nel mezzo) conferma senz’altro il trattato di Aristotele.
Lo stesso filosofo elaborò la teoria “degli abiti del male”, secondo la quale, chi è pervaso da uno o più vizi instaura con il vizio stesso una sorta di abito legato all’anima e al corpo, che lo indurrà a peccare sempre di più. La stessa teoria, vale ovviamente, anche per le virtù, con conseguenze del tutto opposte.
Il primo a stilare una sorta di elenco dei vizi capitali fu Evagrio Pontico, scrittore e asceta greco. Gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria e superbia. L’elenco non appare come quello conosciuto oggi, poiché nel corso del tempo esso è stato protagonista di cambiamenti sostanziali. La tristezza che non permette di godere della bellezza delle opere di Dio, sarà sostituita dall’accidia e dall’invidia, mentre la vanagloria sarà assorbita dalla superbia. Lo scrittore vedeva negli otto vizi una sorta di “pensieri malvagi” e per questo, erano entità da combattere e ripudiare. I vizi sono fondamentali anche nella Divina Commedia di Dante, dove rappresentano parte dell’apparato numerologico.
Il concetto di vizio, con l’avvento dell’Illuminismo, però, andò man mano a disfarsi, poiché nell’era del progresso vizi e virtù divennero posizioni alla pari, necessarie ed utili per lo sviluppo sociale.
Simbologia del numero 7
Parlando dei vizi capitali, l’attenzione cade sul suo numero. Il 7 per molte culture rappresenta infatti, la perfezione e la completezza. Alcuni esempi potrebbero essere le sette piaghe d’Egitto o i bracci del candelabro ebraico. Il sette trova la sua spiegazione anche nei precetti del cristianesimo: i sette sacramenti (Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza, Estrema unzione, Ordinazione, Matrimonio) o i sette doni dello spirito santo o i dolori di Maria.
Anche per quanto riguarda le virtù, ricorre ancora il numero sette: fede, speranza, carità, giustizia, temperanza, prudenza, fortezza.
A parlare di sette tentazioni è stato invece San Tommaso d’Aquino, il quale vedeva in quelle tentazioni un modo per l’uomo di giungere verso quattro beni, per sfuggirne da tre. Si parla, di fatto, della conservazione del corpo e della specie, che possono degenerare nel peccato di gola e lussuria. Il bene della ricchezza, se troppo desiderata sfocia nell’avarizia. Per quanto riguarda il quarto ed ultimo bene, è di tipo spirituale: la consapevolezza di sé, se spinta in eccedenza sfocia nella superbia.
I beni dal quale l’uomo rifugge invece sono il bene spirituale, che se trascurato sfocia nell’accidia, e il bene del prossimo che può degenerare in invidia. Mentre è il bene altrui quello da cui si fugge quando si è alla ricerca di una vendetta, poiché esso può portare all’ira.
I 7 peccati capitali: uno ad uno
Il peccato più grave sembrerebbe essere proprio quello della superbia, considerato di fatto, peccato mortale. Esso nasce dal desiderio di primeggiare sugli altri sia per meriti giusti o per pretesa immotivata. Il superbo arriva a credersi anche migliore di Dio, generando onnipotenza assoluta, mania di grandezza e giudizio irrazionale verso tutto e tutti. Potrebbe essere identificato anche nell’orgoglio, nella presunzione e nell’arroganza. La pena capitale rivolta a tale vizio sembrerebbe essere il supplizio alla ruota, con conseguente rottura di braccia e gambe. In opposizione si staglia la virtù dell’umiltà, guardando sé stessi per ciò che si è senza il confronto con gli altri, e abbandonando la competizione cieca.
L’invidia è generata da una visione erronea della realtà. L’invidioso si configura in questa posizione perché odia il prossimo che possiede qualcosa che a lui manca. Anche in questo caso il paragone è un elemento molto forte del vizio stesso. La persona invidiosa gode delle perdite e delle disgrazie altrui, e non lavora per migliorare la sua vita, aspettando silente che quella degli altri peggiori irrimediabilmente. L’invidia viene spesso confusa con la gelosia, ma di fatto è un errore. Mentre la gelosia è causata dalla paura di perdere qualcuno o qualcosa che in qualche modo si possiede, l’invidia nasce dal desiderio di possesso di qualcosa che non si ha. L’immagine identificativa del vizio è alquanto evocativa: una donna anziana che mangia il suo stesso cuore. La pena capitale prevedeva l’immersione in acqua ghiacciata per l’eternità. Agli antipodi si piazza la carità.
Altri errori, altri peccati capitali.
Un altro errore comune è associare il vizio della lussuria all’amore. Tale vizio è legato solo al piacere sessuale, che non implica né amore né riproduzione della specie, ma lo sterile atto di godere del momento piacevole. Il lussurioso cede a tutti gli impulsi e ai capricci, senza curarsi delle conseguenze, in una smania quasi bestiale. La pena capitale prevista per tale vizio era il soffocamento dal fuoco e dallo zolfo. A stagliarsi come virtù opposta è l’autocontrollo e la castità.
A dispetto di ciò che si pensa, il vizio della gola non è desiderare ardentemente il cibo, ma qualsiasi cosa. Oggetti, denaro, o emozioni. Chi vive in tale senso, avrà una vita del tutto insoddisfacente divorato dalla sua stessa fame. L’ingordigia non ha confini, chi ne è affetto prende tutto e lo divora. Come pena niente di più logico: bisogna mangiare ratti, rospi e serpenti. Nelle virtù compare la temperanza, ovvero la capacità di accettare e preservare l’equilibrio limite delle cose.
L’accidia è uno dei peccati più “immobili” della lista. Chi è accidioso rifiuta la vita, e vive in modo meccanico, allontanandosi dall’evoluzione e dal cambiamento. Egli trascura anche le questioni spirituali, generando in sé stesso e nel mondo circostante una sorta di immobilismo cronico. L’accidia sembrerebbe portare ad una sorta di anaffettività, cioè una mancanza di sentimenti verso sé stessi e gli altri. I condannati venivano gettati in una fossa piena di serpenti. Al contrario di tale vizio, troviamo lo zelo, la capacità cioè di portare a termine con entusiasmo i propri obiettivi.
Agli antipodi dell’accidia troviamo senz’altro l’ira. Essa non genera immobilismo, ma un getto iracondo che scatena risentimento, cattiveria, violenza e frustrazione. La mente dell’iracondo si alimenta solo di pensieri negativi. La vita dell’iracondo diventa un picchiaduro anni ’90 dove per stare bene con sé stessi si necessita di vendetta e violenza. Essa può manifestarsi anche attraverso comportamenti autodistruttivi. La pena rivolta a tale condizione è lo smembramento. Ovviamente al contrario dell’ira, troviamo la gentilezza di approcciare in modo tenero e paziente alle persone e alle vicende.
Come ultimo peccato troviamo l’avarizia. Essa è l’attaccamento morboso ai beni materiali, risultando di fatto simile alla gola. Esso di differenzia però dall’altro vizio, nel fatto che l’avaro non ne ha mai abbastanza delle cose e del denaro, sviluppando una sorta di ossessione. Esso è un accumulatore seriale, e mette le sue ricchezze prima di tutto, persino prima di Dio. La parola deriva da Aveo, il cui significato è “desiderare in modo smodato e senza razionalità”. La pena capitale prevedeva un bagno nell’olio bollente. A contrapporsi a tale vizio è la generosità, ovvero dare ciò che si ha senza aspettarsi il giusto torna conto.
Se da una parte, quindi, i sette peccati capitali sembrano tediare l’animo umano, per altri, sono il semplice confine giusto da non valicare. In una lotta eterna di equilibri tra cosa è giusto e cosa non lo è, ad oggi i peccati capitali sembrano essere la fotografia fatta a parole di una società che sbaglia e rimedia, e poi sbaglia ancora.
Fonte immagine per l’articolo sui peccati capitali: pixabay.com
Le piaghe d’Egitto non erano 10? Qual’è che le sfugge?