The Social Dilemma: il docudrama di Netflix che denuncia il lato oscuro dei social media

The Social Dilemma: il docudrama di Netflix che denuncia il lato oscuro dei social media

The Social Dilemma. Il docudrama di Netflix, che denuncia il lato più oscuro e pericoloso rappresentato dai social media.

The Social Dilemma. L’ultimo affascinante, chiacchierato, ragionato e sorprendente documentario diffuso su Netflix nelle ultime settimane, il cui obiettivo è la denuncia del lato più oscuro e pericoloso rappresentato dai social media.

Presentato all’ultimo Sundance Film Festival, il docudrama di Jeff Orlowski descrive gli effetti collaterali della massiccia diffusione dei social network nel XXI° secolo, soffermandosi sui danni che direttamente e indirettamente logorano la società. Già noto per aver diretto Chasing Coral – documentario sulla progressiva sparizione delle barriere coralline – e Chasing Ice – altro documentario che mostra i disastrosi effetti del riscaldamento globale -, il regista intende qui far luce sul marcio che si cela dietro ai social media: sfruttamento e commercio dei dati personali degli utenti, il consolidamento del cosiddetto “capitalismo di sorveglianza”, la diffusione smodata di fake news e, non meno importanti, le gravi conseguenze sull’equilibrio mentale, in particolare sugli utenti più giovani.

Ma andiamo ad analizzare la struttura del docudrama.

The Social Dilemma. La struttura

Il docudrama intreccia due filoni principali: da un lato l’insieme di interviste condotte ad alcune delle più note personalità del mondo della progettazione dei social, ben addentrate dunque nei subdoli meccanismi alla base della programmazione; dall’altro la narrazione cinematografica, che pone al centro la vita di una tipica famiglia americana, minata dai corrosivi effetti, che l’abuso nell’utilizzo dei social media produce.

Potremmo pensare: cosa c’è di inedito? Intuiamo a sufficienza quanto l’ingombrante presenza della tecnologia nelle nostre vite le stia di fatto modificando, inducendo la società a profondi e radicali cambiamenti. Ma la novità risiede proprio nella struttura del documentario: il regista vuole sbatterci in faccia la verità, e lo fa servendosi del prezioso contributo offerto proprio dagli ex dipendenti e dirigenti delle più famose aziende della Silicon Valley quali Facebook, Google, Pinterest e Instagram. Personalità brillanti, ma progressivamente annientate dal peso del dilemma etico, che serpeggia sinuosamente sotto gli algoritmi di programmazione, dietro l’incanto della persuasione e la monetizzazione che ben si cela dietro like e cuoricini, sempre più confusi ormai per verità e autenticità, innescando ansia e depressione, fragilità e vulnerabilità crescenti, soprattutto tra gli adolescenti. È quel che accade infatti ai teenager protagonisti del filone narrativo: l’adolescente disadattato Ben (Skyler Gisondo), che vive la pesante dipendenza dai social, completamente sommerso dal cattivo utilizzo di Youtube e di Facebook, e assuefatto alle fake news. E così la sorella Isla (Sophia Hammons), vittima del costante confronto con le coetanee e del deleterio desiderio di consenso su Instagram, mostruosamente dipendente da like e commenti che possano rinforzare l’apparente autostima, che cela una “dismorfia da chat”. Ecco che i ragazzi divengono veri e propri avatar virtuali, modelli esagerati di se stessi, costruiti dagli algoritmi, impersonati da tre personaggi attaccati agli schermi e agli schemi, per monitorare costantemente gli interessi dell’utente e manipolarli, al fine di tenerlo “incollato” il maggior tempo possibile al display del proprio smartphone. Una sorta di esasperato Grande Fratello, che muove i fili virtuali di vite reali, senza quasi possibilità di libero arbitrio. Il tutto per aumentare i profitti dei colossi tecnologici e informatici, lanciando qui e là inserzioni pubblicitarie, e innescando una corsa al guadagno a costo zero. Gli utenti divengono elementi di calcolo, nelle mani di un mega cervello globale, l’intelligenza artificiale, ridotti essi stessi a prodotto, ma illusi di utilizzarlo secondo i propri desideri.

Tra le rigorose ed eminenti personalità nel panorama dei social media, decise a firmare il documentario, mettendoci la faccia e rilasciando precise e preziose dichiarazioni, c’è Tristan Harris. Informatico e precedentemente esperto di design in Google, a Stanford ha studiato etica della persuasione umana, ed attualmente presidente e co-fondatore del Center for Humane Technology. Tristan, fondandosi sulla sua esperienza, ci confida senza inibizione i pericoli della dipendenza che i social media e i motori di ricerca come Google possono generare in noi. Si è fermato, si è guardato intorno e ha cominciato a percepire la destabilizzazione verso cui il mondo sta precipitando. Tutti sembrano impazziti, vittime di questa grande “macchina da guerra tecnologica”, ma ancor più di se stessi. Harris ha cominciato a sperimentare sulla sua pelle la dipendenza informatica, così decide di offrire voce ed esperienza, argomentando in The Social Dilemma le sue preoccupazioni circa la caduta irreversibile verso il baratro dell’assuefazione e della vulnerabilità mentale ed emotiva.

Scende in campo, accanto ad altri giganti, quali Justin Rosenstein – co-inventore del tasto “mi piace” di Facebook – e Tim Kendall – ex presidente di Pinterest, che ha lavorato come responsabile della monetizzazione in Facebook, abile dunque a svelare la capacità di profitto dei social e la dipendenza che creano. Prezioso ancora l’intervento di Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale, che a fine documentario offre consigli pratici su come tentare almeno di arginare un problema di tale enorme portata.

The Social Dilemma. La denuncia

«Ogni atto di creazione è, prima di tutto, un atto di distruzione»

(Pablo Picasso)

È con questa premessa che inizia The Social Dilemma, destando nello spettatore disagio e preoccupazione. Ma andando avanti con le interviste e la narrazione filmica, la denuncia del docudrama prende forma. Gli stessi geni della Silicon Valley non negano l’impatto positivo che, almeno nelle intenzioni inziali, la tecnologia e la sua evoluzione ed “intrusione” hanno esercitato sulla società. Ebbene, ci hanno sempre raccontato del miracolo del progresso, del potere della connessione nel creare relazioni vicine e lontane, dipingendo Facebook e Instagram come paladine della comunicazione.

Ma è tutto davvero così innocuo e propositivo? Questo enorme flusso di scambio e offerta dati non è per caso andato troppo oltre? Non sussiste una crepa dietro l’incanto dell’illusione? A tali domande Tristan Harris, Justin Rosenstein e Jasron Lanier non celano la loro preoccupazione crescente e tutta la perplessità che ne deriva. Qual è dunque il lato oscuro che nascondono i social media? La risposta è davanti agli occhi quotidianamente!

Non occorre andarla a cercare così al di là del proprio naso perché è lì, in quei meccanismi apparentemente innocui che i social ogni giorno ci propinano: pensiamo ai tre puntini sospensivi che si palesano nelle chat Whatsapp e Facebook mentre chattiamo con una persona, suggerendo che ci stia scrivendo qualcosa. Quale pericolo possono mai costituire? Ebbene, ci rendono più difficile la possibilità di riporre lo smartphone, portandoci a fissarlo, nell’attesa della risposta, e intanto qualche inserzione pubblicitaria in bacheca cattura la nostra attenzione, così come una nuova notifica che ci spinge a guardare quel post o quel tag della persona che ci interessa. Risultato? Le grandi piattaforme ottengono di tenerci incollati al display, acquisendo sempre nuove informazioni su ciò che ci interessa, così da propinarci notizie, video e immagini in connessione con i nostri desideri e le nostre passioni. I social filtrano i nostri interessi e li vendono, e con loro noi stessi. E chi ne avrà dato il consenso? Noi, con i nostri like e le nostre visualizzazioni in web pilotate e seguite. Ecco materializzarsi il monito più presente nel docudrama: «Se non stai pagando per il prodotto, allora il prodotto sei tu». Una consapevolezza che fa accapponare la pelle! I geni della Silicon Valley ci stanno invitando, senza troppi giri di parole, ad aprire gli occhi.

Si innesca così una reazione a catena: i social network non si limitano subdolamente a costruire profili grazie ai dati da noi forniti, bensì si intrecciano con gli interessi del capitalismo, giungendo alla possibilità di plasmare le nostre opinioni e dirottandole verso quel pensiero politico o verso quella teoria scientifica. È così che nel XXI° l’Homo Sapiens passa da “Homo Digitalis” a “Homo Deceptus”. Siamo esseri illusi di godere della libertà del libero arbitrio, ma viviamo in realtà in una gabbia dorata, dove la volontà d’informarsi e connettersi con il mondo è solo una mera parvenza di libertà. Il numero di click su un post, il tempo di visualizzazione di determinati contenuti, le ricerche effettuate tramite Google, tutto è tracciato con lo scopo di intercettare e manipolare noi utenti, al fine di creare nuovi profili artificiali da pilotare a scopi molto profit!

Ma gli esperti ci dicono di più. Le informazioni a cui accediamo non sono uguali per tutti: con il sistema di geolocalizzazione e in base alla conoscenza delle nostre preferenze espresse, Google decide cosa mostrarci. Gli algoritmi divengono predittivi grazie ai dati da noi forniti. Accade così che ogni persona ha la propria realtà con i propri fatti: siamo tutti pseudo “Truman Show”, in quanto tutto ciò a cui accediamo è preparato su misura per noi, le notizie sono personalizzate in base ai desideri di ognuno. Ci colleghiamo ai social e al web, e tutto sembra così in sincronia con i nostri interessi: brani musicali, nuovi utenti da conoscere, pagine che sposano i nostri gusti culturali, artistici e sociali. Ed è così che si sfocia nella sterilità del confronto: perdiamo irrimediabilmente il diritto al dialogo, crediamo di essere interconnessi, ma in realtà siamo quanto mai distanti. Non comunichiamo con chi la pensa diversamente da noi, perché siamo irretiti nella nostra bacheca popolata da utenti che pensano esattamente come noi, perché è ciò che i social ci mostrano, per spingerci a rimanere connessi in rete, ma disconnessi dalla realtà. Di qui si giunge alle guerre culturali e alla polarizzazione socio-politica.

L’oggettività si annulla, le fake news dilagano, passando dall’era dell’informazione all’era della disinformazione. Proprio oggi, nel drammatico periodo pandemico del Covid-19, tocchiamo con mano il pericolo delle informazioni distorte, che generano allarmismi, ansie e timori, giungendo addirittura a fomentare teorie cospirazioniste, pronte a diffondersi veloci quanto un virus. Non c’è spazio per la realtà, perché diviene noiosa, così si insegue il bisogno di sentirsi speciali, credendo in qualcosa di “diverso”, ma nel modo sbagliato.

E tale necessità di sentirsi bene e unici imperversa particolarmente tra i più giovani, definiti nel docudrama “Generazione Z”, ossia tutti i ragazzi nati tra il 1996 e il 2010. Si tratta, come già anticipato, della generazione più colpita e bombardata dagli impulsi dei social media, e quella più esposta ad una progressiva fragilità mentale ed emotiva. Sono proprio le nuove generazioni quelle più ansiose, quelle meno disposte a correre rischi per il timore di scivolare irrimediabilmente. Sono quelle meno disposte a sopportare dolori e delusioni, perché divenute estremamente fragili. Socializzano meno, paradossalmente, preferendo “sopravvivere” in una sorta di bolla che le protegga dal mondo circostante. È una generazione apparentemente senza limiti, ma che tende a crearsene continuamente. Dal 2011, proprio quando la diffusione dei social media raggiunge il suo apice, si registra una crescente depressione, assistendo a fenomeni di autolesionismo e suicidi, proprio tra gli adolescenti. Tutto ciò generato da un clima di insicurezza, dal costante bisogno di accettazione e consenso, dal confronto con particolari canoni di bellezza propinati. A tal riguardo risulta illuminante in The Social Dilemma l’intervento della dottoressa Anna Lembke, psichiatra specializzata in dipendenze, che ci spiega chiaramente cosa avviene nel nostro cervello. Ogni qual volta pubblichiamo un post o una foto sui nostri profili social, viviamo nell’attesa di ricevere approvazione, tradotta nei famosi like e cuoricini, che innescano nel cervello la produzione e il rilascio di dopamina, responsabile della sensazione di piacere. Così siamo portati a ricontrollare quanto abbiamo condiviso, nella speranza di riprovare quell’emozione. Così, in un momento di tristezza e sconforto hanno e abbiamo a disposizione questo “ciuccio digitale”, lo smartphone, che sembra risolvere le angosce e migliorare l’autostima, grazie a semplici commenti, che da soli riuscirebbero a risanare le sorti di una giornata grigia!

Inoltre gli adolescenti tendono a sfociare nell’inconcludenza: persi nei meandri di video consigliati, notifiche, tag ed input disparati, dimenticano lo scopo originario della ricerca e il motivo per cui in quel momento reggono tra le mani il loro smartphone.

Tutto ciò sembra mostruoso ed irreale, eppure è ciò che la mente umana ha creato.

La preoccupazione degli ex dipendenti e geni della Silicon Valley è più che fondata. La realtà virtuale sta inevitabilmente spostando il nostro baricentro esistenziale e veicolando la nostra attenzione, persino le nostre emozioni. La nascita di Internet è stata progettata per incentivare la sperimentazione, la creatività, l’innovazione sana, il progresso (che non generasse regresso!), non certo per sabotare l’intelligenza umana, facendo precipitare la società nel caos! L’intelligenza artificiale, di questo passo, farà scacco matto all’umanità. Questa è la paura più grande di tutti gli intervistati.

Ma ciò che va osservato e compreso è che The Social Dilemma non punta il dito contro la tecnologia: non è essa la minaccia esistenziale, ma il suo errato utilizzo. Qui risiede la chiave di lettura e interpretazione.

Il problema inoltre risiede anche qui: non sussistono ad oggi leggi atte a garantire e tutelare la privacy digitale degli utenti. In ballo ci sono i profitti, che minano la nostra libertà. Così diveniamo nemici di noi stessi. Ma, come rammenta Jaron Lanier alla fine: «sono le persone critiche i veri ottimisti», e si potrebbe aggiungere “i veri eroi”!

La verità che viene analizzata è indiscutibile: siamo costantemente oggetto di osservazione e manipolazione mentale, emotiva e comportamentale.

Dunque in che modo possiamo squarciare questo velo, fatto di finzione ed illusione? Come potremmo riprendere in mano la nostra vita e fuggire da questa sorta di realtà parallela, che di reale e autentico ha solo la nostra convinzione che lo sia? Come possiamo “guarire” e vincere questa battaglia virtuale? La parola agli esperti, con i loro consigli e soluzioni. Basta guardare e ascoltare con attenzione ed occhio critico The Social Dilemma. A tutti buona visione!

Immagine copertina: Shock.co

A proposito di Emilia Cirillo

Mi chiamo Emilia Cirillo. Ventisettenne napoletana, ma attualmente domiciliata a Mantova per esigenze lavorative. Dal marzo 2015 sono infatti impegnata (con contratti a tempo determinato) come Assistente Amministrativa, in base alle convocazioni effettuate dalle scuole della provincia. Il mio percorso di studi ha un’impronta decisamente umanistica. Diplomata nell’a.s. 2008/2009 presso il Liceo Socio-Psico-Pedagogico “Pitagora” di Torre Annunziata (NA). Ho conseguito poi la Laurea Triennale in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” nel luglio 2014. In età adolescenziale, nel corso della formazione liceale, ha cominciato a farsi strada in me un crescente interesse per la scrittura, che in quel periodo ha trovato espressione in una brevissima collaborazione al quotidiano “Il Sottosopra” e nella partecipazione alla stesura di articoli per il Giornalino d’Istituto. Ma la prima concreta possibilità di dar voce alle mie idee, opinioni ed emozioni mi è stata offerta due anni fa (novembre 2015) da un periodico dell’Oltrepo mantovano “Album”. Questa collaborazione continua tutt’oggi con articoli pubblicati mensilmente nella sezione “Rubriche”. Gli argomenti da me trattati sono vari e dettati da una calda propensione per la cultura e l’arte soprattutto – espressa nelle sue più soavi e magiche forme della Musica, Danza e Cinema -, e da un’intima introspezione nel trattare determinate tematiche. La seconda (non per importanza) passione è la Danza, studiata e praticata assiduamente per quindici anni, negli stili di danza classica, moderna e contemporanea. Da qui deriva l’amore per la Musica, che, ovunque mi trovi ad ascoltarla (per caso o non), non lascia tregua al cuore e al corpo. Adoro, dunque, l’Opera e il Balletto: quando possibile, colgo l’occasione di seguire qualche famoso Repertorio presso il Teatro San Carlo di Napoli. Ho un’indole fortemente romantica e creativa. Mi ritengo testarda, ma determinata, soprattutto se si tratta di lottare per realizzare i miei sogni e, in generale, ciò in cui credo. Tra i miei vivi interessi si inserisce la possibilità di viaggiare, per conoscere culture e tradizioni sempre nuove e godere dell’estasiante spettacolo dei paesaggi osservati. Dopo la Laurea ho anche frequentato a Napoli un corso finanziato da FormaTemp come “Addetto all’organizzazione di Eventi”. In definitiva, tutto ciò che appartiene all’universo dell’arte e della cultura e alla sfera della creatività e del romanticismo, aggiunge un tassello al mio percorso di crescita e dona gioia e soddisfazione pura alla mia anima. Contentissima di essere stata accolta per collaborare alla Redazione “Eroica Fenice”, spero di poter e saper esserne all’altezza. Spero ancora che un giorno questa passione per la scrittura possa trovare concretezza in ambito propriamente professionale. Intanto Grazie per la possibilità offertami.

Vedi tutti gli articoli di Emilia Cirillo

Commenta