Tutto scorre…di Vasilij Grossman | Recensione

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Vasilij Grossman è uno scrittore e giornalista sovietico di origine ebraica. Si laurea come ingegnere ma per tutta la sua vita sarà scrittore. 

Всё течёт…, titolo originario dell’opera di Vasilij Grossman, viene pubblicato postumo a Francoforte nella Repubblica Federale di Germania, colloquialmente definita come Germania Ovest nel 1970. In realtà, il romanzo è stato scritto durante gli anni tra il 1955 e il 1963, si dice fino agli ultimi giorni della morte dell’autore.

L’opera è definita come un romanzo, categorizzato nelle librerie e tra i libri come letteratura dei lager o letteratura della memoria. In effetti il libro parla di tutto questo: dei gulag russi, della memoria di Vasilij Grossman che ritroviamo nei ricordi vividi di Ivan e Anna, i due protagonisti dell’opera. Il libro è scritto in terza persona ed è ambientato nella Russia del 1954, dopo la morte di Stalin e si apre con il ritorno di Ivan Grigor’evic dopo trent’anni trascorsi nel gulag di Kolyma, in Siberia.

I capitoli possono essere divisi in diverse sezioni, ognuna focalizzata su un argomento ben preciso della storia russa. Tramite Ivan, i suoi pensieri, le sue memorie, il suo viaggio di ritorno che lo porta prima a Mosca e poi a Leningrado, Vasilij Grossman offre un quadro della Russia dell’epoca, del suo dolore, delle macchie di sangue di cui si è ricoperta, dell’ipocrisia che ha scaturito, della Russia sovietica che ha le fondamenta nelle idee di Lenin che si affermeranno in pieno con il regime comunista di Stalin. I due verranno poi accusati di negare la libertà al popolo russo ignaro e cieco negli ultimi capitoli dell’opera che sono i più importanti.

Ci sono altri capitoli con argomenti pungenti, dolorosi ma assolutamente fondamentali per comprendere il contesto denunciato da Grossman. Ad esempio, il capitolo in cui Ivan incontra il suo delatore, Pinegin. L’autore coglierà l’occasione, nel capitolo definito Il processo dei Quattro Giuda, per parlare di altri delatori e della responsabilità individuale di ognuno.

Vengono raccontate le storie nei gulag maschili ma quelle più notevoli sono nei gulag femminili, tramite i quali Grossman si sofferma per riflettere e per raccontare la tragedia di Maša che viene arrestata nel 1937, ovvero all’apice del Grande Terrore, semplicemente per essere la moglie di un uomo ritenuto colpevole dallo stato; con lei il lettore si ritrova capovolto nel viaggio verso la Siberia. Inizialmente si può ben intuire l’illusione della protagonista di poter ritornare indietro dal marito e dalla figlia, credendo appunto che si trattasse di un errore. In realtà Maša indietro non ritornerà mai, conoscerà e permetterà al lettore di conoscere il trattamento e gli abusi (e gli altrettanti abusi che le donne stesse compivano agli unici uomini che vedevano) subiti dalle donne da parte delle loro compagne, alcune definite come le ladre, e dalle guardie maschili. Alla fine Maša morirà con l’illusione e con la speranza di ritornare ad una libertà che ormai le era sconosciuta, riconciliandosi con il marito e la figlioletta.

Vasilij Grossman scrive uno dei capitoli più crudeli e sembra che la narrazione si interrompa per dare spazio alla cronaca. Il punto di vista è offerto dalle memorie di Anna Sergeevna, la donna che ospita Ivan e di cui si innamora una volta stabilitosi al sud. Anna è un’ex funzionaria di Partito e grazie al suo personaggio e alle sue testimonianze sul massacro dei kulaki e la dekulakizzazione e della Grande Carestia in Ucraina, Grossman può denunziare i crimini più aspri del regime sovietico.

Anna racconta della Grande Carestia, meglio conosciuta con il nome di Holodomor che colpì l’Ucraina tra il 1932 e il 1933. La causa delle molteplici carestie che ha colpito l’Unione Sovietica in quegli anni è stata la decisione di Stalin di far aderire non i singoli contadini ma gli interi villaggi ai kolchoz, ovvero la collettivizzazione forzata delle terre. L’Ucraina è stata la più colpita, infatti è nominata anche il granaio d’Europa e a causa di ciò Stalin decise di sfruttarla appieno. Inoltre, questa situazione va a mescolarsi con la persecuzione dell’intelligencija e con la lotta al patriottismo di un intero popolo.

Così il lettore si trova dinanzi al capitolo più struggente del romanzo, in cui Anna racconta la sua testimonianza. Inizialmente fidandosi dello Stato, Anna diffida dei kulaki provando odio nei loro confronti ed entra negli attivisti. Citando le sue parole: «Niente pietà per loro: non erano uomini, non capivi neppure che razza di esseri fossero», a cui seguono il rimorso e la sua incredulità nel pensare, anni dopo, quanto crudeli fossero quei suoi pensieri contro persone che ora «Vede in loro degli uomini». Anna racconta della dekulakizzazione, di come qualsiasi tipo di persona, anziano o giovane o bambino, sono stati portati via dalle loro case da un giorno l’altro.

Anna racconta dunque nel dettaglio la vita all’inizio della carestia: dalla deportazione dei kulaki alla prima fame con l’avvento del terrore durante l’inverno, della preoccupazione delle madri e delle urla di disperazione dei bambini. Viene raccontata la forza delle donne rispetto agli uomini, per cercare di sfamare la famiglia. In primavera, finita la neve, Anna racconta di corpi gonfi e della comparsa dell’edema da fame. Durante il racconto Vasilij Grossman si appella a Stalin, chiedendogli come sia possibile che possa accadere tutto ciò davanti ai suoi occhi e non accorgersene. A Kiev, Anna ha modo di osservare per bene i contadini affamati e moribondi, assistendo fino a che punto l’uomo possa spingersi per disperazione: al cannibalismo. Il capitolo si conclude con il villaggio completamente in silenzio, definito come «Il cimitero della rude scuola». Anna pone un’ultima domanda a Ivan prima di andare a prepararsi per il lavoro, ma è in realtà Vasilij Grossman che si rivolge in primis a Stalin e poi al lettore: «Come è potuto accadere tutto questo?».

Come per ogni argomento, anche questo si chiude con una storia straziante: quella tormentata di Vasilij Timofeevič, Hanna e il loro piccolo Griša. A questa vicenda seguono poi capitoli di narrazione in cui si scopre la malattia e la morte di Anna, per cui Ivan ha provato tantissimo amore. Stanco e distrutto dalla vicenda, decide di rifugiarsi nelle sue memorie, ricordando i suoi anni di prigionia alla Butyrka. Questo va ad aprire una riflessione sull’Unione Sovietica a livello politico.

La denuncia di Vasilij Grossman

Vasilij Grossman a questo punto della narrazione prende il sopravvento e inizia ad analizzare il paese sotto la guida del padre ideale, ovvero Lenin e in seguito sotto la presa di potere di Stalin. La parte finale del libro sembra dunque ricordare i toni accusatori dell’articolo francese J’accuse di Zola, in quanto è proprio a causa di Lenin che inizia la costruzione di quello che viene definito come Stato padrone, ovvero uno stato che rappresenta la fine e non il mezzo. Lenin è colui che getta le basi a quello che troverà poi le fondamenta nel regime sovietico e dittatoriale di Stalin.

Per Vasilij Grossman il loro artificio non ha fatto altro che rendere la Russia schiava (anzi la schiavitù millenaria è alla base dell’anima russa, anche con lo zarismo) e la parola su cui più si ossessiona lo scrittore è: la libertà. La libertà con Lenin, e in seguito con Stalin, viene soppressa e ovviamente l’autore non è assolutamente d’accordo in quanto scrive della «legge sacra della vita», citandolo: «La libertà dell’uomo sta al di sopra di tutto, non vede al mondo obiettivo degno del sacrificio della libertà dell’uomo.» Questo perché la libertà, in qualsiasi regime che vuole incutere terrore, è la prima che viene tolta.

Tra le parole si scopre bene il pensiero di Vasilij Grossman, di quanto Lenin sia stato abile a sedurre la schiava Russia che, uscita dallo zarismo, ha posto il suo sguardo su questo rivoluzionario pieno di idee. «Egli divenne il suo eletto perché lui aveva scelto lei, e perché lei aveva scelto lui.», cosi scrive dell’ascesa di Lenin, per poi soffermarsi sull’intolleranza, sull’insistenza, sull’irremovibilità del rivoluzionario verso chi la pensava diversamente.

Vasilij Grossman si sofferma sull’opera di Lenin di rendere la Russia non-libera e sul suo socialismo, poiché era un fanatico della sua fede e una persona crudele e violenta. Il capitolo dedicatogli viene chiuso con un’anafora significativa: «Dov’è mai la speranza della Russia […]?» Morto Lenin non muore assolutamente il leninismo che vede il suo apice con la dittatura staliniana.

Vasilij Grossman descrive Stalin come l’incarnamento di tre tipi di carattere: asiatico, marxista europeo e sovietico. Lo stato di Stalin è senza libertà, in quanto viene uccisa e diventa ornamento dello stato stesso. Stalin si è posto al centro, rappresentando l’origine della forza dello Stato. L’autore si sofferma sulla vera manifestazione del carattere di Stalin: i piani quinquennali. In essi è riversata tutta la cattiveria, la violenza, le torture a cui Stalin ha sottoposto i suoi nemici, ma anche i suoi stessi cittadini russi. Grossman chiude il capitolo dicendo che Stalin ha potuto essere anche spietato ed essere capace di tutta quella violenza, ma non è mai potuto scappare da quella libertà che scalpitava in lui, ingannando lo zar che viveva in sé stesso. L’invisibile signore padrone della sua anima continuava a vivere dappertutto, laddove apparentemente la non-libertà trionfava incontrastata. Lui solo riuscì a terrorizzare Stalin, fino alla fine della sua vita. 

Il romanzo si chiude con il capitolo ventisette: è autunno e Ivan decide di tornare nella casa del padre in costiera. Qui si lascia a una lunga riflessione sulla sua vita e sulla libertà, nonostante tutta la sua storia travagliata e crudele, è riuscito a sopravvivere ai trent’anni di gulag e alle ingiustizie di uno Stato spietato. In conclusione, Vasilij Grossman dice: «Si, tutto scorre, tutto muta, impossibile salire sullo stesso, immutabile convoglio».

Fonte immagine di copertina: Feltrinelli

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