Arcadia Lost, il check point di Marius W. Arcadio: intervista

Arcadia Lost

Arcadia Lost, il check point di Marius W. Arcadio: intervista

Arcadia Lost è l’ultimo progetto discografico di Marius W. Arcadio, studente di Filosofia da poco trasferitosi a Torino, ma nato e cresciuto nel napoletano. Mario Salzano, questo il suo vero nome, agli studi accompagna anche la passione per la musica e ha da poco pubblicato uno splendido progetto discografico, un concept album, di quelli che non se ne vedono più in giro. Arcadia Lost è infatti un prodotto di pregevole fattura, che si compone di otto canzoni, quattro delle quali già note e incise nel precedente EP Belèm. Trentatré minuti intensissimi, legati però da temi e caratteristiche comuni che vanno a comporre il denominatore comune del progetto. La perdita di sé stessi, la crescita e la rivoluzione interiori sono infatti temi trasversali e comuni ad ogni generazione, ma che rivivono con forza ed originalità  nelle otto canzoni di Arcadia Lost. Gli elementi alla base del disco pochi ed essenziali, come qualsivoglia registrazione amatoriale si rispecchi: una voce profonda, la chitarra, accompagnata dalle necessarie sperimentazioni e variazioni elettroniche del caso, ed una scrittura tagliente nella quale qualsivoglia millennial può facilmente immedesimarcisi. Abbiamo avuto il piacere di parlare con Mario di Arcadia Lost e quanto si legge è il resoconto di una simpatica ed informale chiacchierata telematica.

Intervista a Marius W. Arcadio

Da dove nasce l’idea di Arcadia Lost?

«Arcadia Lost è il prodotto musicale dei miei due ultimi anni di vita, lo specchio dell’insieme di esperienze che mi hanno accompagnato e soprattutto segnato in questo lungo periodo. Tra queste c’è di sicuro il mio Erasmus a Lisbona, dove ho iniziato a costruire le fondamenta per questo album. Oltre questo ci sono stati tanti altri fattori successivi che hanno plasmato Arcadia Lost che, volendo sintetizzare semplicisticamente, parla di una ricerca della strada verso casa che passa prima da quella sbagliata. Non si tratta per forza di un lavoro autobiografico, per citare Conor Oberst dei Bright Eyes “se avessi voluto parlare esclusivamente di me stesso avrei scritto un’autobiografia”, ed è proprio per questo che non mi piace tanto andare nei dettagli del “concept” dietro l’album. La mia parte preferita è proprio quando un’altra persona viene a darmi un’interpretazione diversa dalla mia. Arcadia Lost rappresenta per me un certo tipo di “check point” e, non a caso, ho deciso di pubblicarlo subito dopo essermi trasferito a Torino per iniziare la magistrale del mio percorso di studio, come a mettere un punto ancora più significativo alla fine di questo capitolo e girare pagina in modo altrettanto deciso».

Arcadia Lost è un disco dal forte impatto già dal punto di vista visivo, con quella copertina onirica e quel sottotesto lunghissimo, alla Fiona Apple.

“The big mess we were building so carefully like a popsicle stick palace just to show it proudly to the universe” è parte del testo di una canzone che avrebbe dovuto rappresentare la “title track” dell’album (The Big Big Mess). Tuttaiva, durante la fase di ultimazione dell’album ho deciso di non includerla per vari motivi, un po’ lo stesso destino che è toccato ad altri pezzi lasciati incompiuti o che non hanno trovato la loro sistemazione nell’apparato concettuale del disco. Per quanto riguarda la copertina ritengo che la compagine visiva sia un aspetto fondamentale: io stesso, quando ascolto qualcosa, se non sono impegnato a leggere i testi, sono abituato a fissarne la copertina. Proprio per questo motivo ci tengo a ringraziare il mio amico Matteo Galasso per aver dedicato del tempo a concretizzare la mia idea per la copertina.

Il progetto è costruito come un concept album, con una struttura precisa e un denominatore comune alle canzoni del disco. Qual è la storia di Arcadia Lost?

Ogni canzone è posta in un punto preciso della scaletta e svolge una funzione particolare nello sviluppo della storia. Credo che questo sia uno dei motivi per cui continuo a registrare e fare tutto nell’intimità della mia camera in quanto mi permette di avere il controllo su ogni minimo particolare sia artistico che tecnico, così da essere sicuro che nulla sia lasciato al caso. Come ho detto non tendo ad entrare nello specifico, ma volendo schematizzare la scaletta potremmo dire che Farewell ed Heartlocked Blues rappresentano l’overture, l’insieme delle premesse e di elementi che si rimanifesteranno per tutto il corso dell’album; Belém è il turning point, seppur illusorio, della storia; Ghost Town e An Empty Ballroom analizzano i temi della perdizione e dello smarrimento; Face Full of Smiles e Twenty-Four Question Marks rappresentano il vero turning point, la presa di coscienza e il duro compito di fare i conti con sé stessi; infine The Oneironaut è un racconto pseudo-onirico che, come l’Uroboro, conclude la vicenda riallacciandosi all’iniziale Farewell e in cui è racchiuso buona parte del significato dell’album.

C’è qualche canzone a cui ti senti più legato?

Trovo davvero difficile trovarne una che spicca di più sulle altre visto che ognuna ha un grosso significato per me. Ghost Town, ad esempio, è figlia delle tante passeggiate notturne che ero solito fare durante il periodo portoghese, mentre Belém invece rappresenta l’omonimo quartiere di Lisbona, una sorta di rifugio personale dove meditare sulle sponde del Tago: questo concetto di locus amoenus permea un po’ tutto l’album, a partire dallo stesso titolo. Se proprio dovessi dirne una mi verrebbe da rispondere in maniera provocatoria che il brano con più carico emotivo è proprio quello che non ho più incluso ovvero The Big Big Mess, ed è forse per questo che mi è sembrato giusto farne almeno un riferimento nel sottotitolo.

Parlaci di te, ora. Come vedi Marius W. Arcadio in futuro?

Per adesso mi godo il piacere di aver concluso questo progetto, anche se musicalmente parlando non smetto mai di scrivere e sperimentare. Da artista indipendente il modo migliore per crescere è contare sulle proprie forze, ma anche trovare appoggio su chi si trova sulla mia stessa barca ed è proprio su questa filosofia che insieme ad amici ho fondato Silent Sling, un progetto che desse spazio a musicisti indipendenti provenienti da vari generi. Dopo aver organizzato diverse serate in locali in giro per Napoli e aver avuto anche l’occasione di ospitare un musicista internazionale importantissimo come Tim Kinsella purtroppo siamo stati frenati sul più bello dalle vicende sanitarie che ben conosciamo. Spero vivamente di riuscire a rimettere in moto il prima possibile questo progetto, oltre che ritornare presto a suonare dal vivo.

Immagine copertina: ufficio stampa

A proposito di Matteo Pelliccia

Cinefilo, musicofilo, mendicante di bellezza, venero Roger Federer come esperienza religiosa.

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