Don Henley è considerato uno dei rappresentanti della maturazione della scena californiana, oltre ad essere da sempre il batterista della rock band americana per antonomasia, gli Eagles, da lui fondati con Glenn Frey, Bernie Leadon e Randy Meisner. Oltre alla sua caratteristica voce “sabbiosa”, altra peculiarità è una penna molto felice ed arguta che hanno fatto si che, insieme a Glenn Frey, firmasse alcuni tra i più grandi successi del gruppo. Oltre al successo con la sua band, ha avviato una carriera solista altrettanto acclamata anche dalla critica musicale, pur avendo prodotto in tre decenni solo cinque album. In questo articolo, verranno proposte tre delle canzoni di Don Henley tra le più emblematiche.
Ispirata in parte dagli eventi disastrosi per Wall Street verso la fine del 1987, New York Minute è una canzone che vuole sottolineare l’imprevedibilità e la fragilità della vita, attraverso delle immagini intense e cariche di significato. Incluso nel suo terzo album solista, The End of the Innocence, rappresenta efficacemente una delle caratteristiche della sua scrittura, riflessiva e che non risparmia mai una frecciatina tanto ad elementi del sogno americano quanto alla politica degli USA. Il malinconico inizio, «Harry got up dressed all in black / Went down to the station / And he never came back», ben viene reso dall’intensa interpretazione dell’autore del brano, firmato in collaborazione con Jai Winding e Danny Kortchmar, quest’ultimo suo fido collaboratore per tutti e tre i primi album solisti. Come dicevamo, la riflessione che Don Henley fa sulla caducità della vita ed il consiglio di tenersi stretto quel che si ha, il sapere che la vita possa cambiare in un battito di ciglia, soprattutto in una città frenetica e impietosa come la Grande Mela, ben è espresso da parte del ritornello «In a New York minute, everything can change». In una caratterizzazione sonora, che si rifà comunque ai grandi standard della musica americana, non può mancare un assolo di tromba che tanto fa jazzy. Il brano, dopo la reunion del 1994 degli Eagles, è entrato a far parte del loro repertorio dal vivo.
Tra le canzoni di Don Henley troviamo anche The Boys of Summer, che è assurta alla setlist dei concerti degli Eagles dal momento della loro reunion del 1994. Pubblicata anche come singolo, è forse la canzone più famosa di Don Henley degli anni ‘80, in grado di catturare l’essenza nostalgica di un’estate che sta per concludersi e di uno di quegli amori che durano proprio il tempo di un’estate e che finiscono per trasformarsi in dolorosi rimpianti. Tratta dal secondo album di Don Henley, Building the Perfect Beast, la canzone si è aggiudicata anche un Grammy Award per la migliore interpretazione vocale maschile nel 1986, divenendo un classico radiofonico dell’epoca, tanto da essere poi in seguito anche oggetto di cover di gruppi come gli Ataris. Un equilibrato connubio fra chitarre elettriche e sintetizzatori per le evocative atmosfere che rimandano ad immagini estive saturate da un obiettivo fotografico, quasi a dare l’impressione di una sovraesposizione dolorosa di luci ed emozioni bruciate. Il riff di chitarra ripetitivo che è possibile distinguere chiaramente, è suonato da Mike Campbell, chitarrista degli Heartbreakers di Tom Petty e coautore del brano con Henley,
L’ultima delle canzoni di Don Henley proposta è The End of the Innocence. Henley si serve della metafora della perdita dell’innocenza di una giovane donna immaginaria per parlare di quella ben più reale della grande terra nazione delle opportunità: gli USA. Di fatto non avviene nulla di scabroso, anche se la stampa scandalistica statunitense, da sempre particolarmente ostile verso Henley e gli Eagles, diede sfogo a molte illazioni. Ma del resto l’ostilità era da sempre ricambiata, particolarmente da Don Henley che aveva scritto anche una canzone particolarmente corrosiva nei loro riguardi, il suo primo successo solista Dirty Laundry del 1982. The End of the Innocence, scritta a quattro mani con Bruce Hornsby, cantautore di culto che contribuisce con il suo piano, è sicuramente uno degli episodi più poetici della discografia di Henley. Si canta di tempi più semplici in contrapposizione con quelli odierni, con diversi accenni a momenti storicamente connotati al periodo, con un accenno al presidente Reagan e alle politiche che tanto danneggiavano l’agricoltura e l’ambiente degli USA. Oltre a questi, è possibile trovare anche accenni alle ingerenze di legali ed avvocati che a volte finiscono per cambiare addirittura il senso della realtà a favore di quel che il loro lavoro chiede. Nei ricordi tutto sembra differente, anche quella piccola città in cui siamo cresciuti e rimasta per sempre dentro di noi, mentre il mondo è cambiato. Nella voce di Henley, la nostalgia per un’epoca in cui le cose sembravano più chiare, la vita meno complicata. Tuttavia, non c’è solo amarezza nella sua voce; c’è anche una nota di speranza e una chiamata all’azione. «O’ beautiful, for spacious skies» canta, richiamando l’inno nazionale americano e suggerendo che, nonostante tutto, c’è ancora spazio per i sogni e la redenzione. L’arrangiamento musicale, che include un assolo di sax, rende questa canzone un’opera d’arte avulsa a buona parte del resto dell’album e sa suscitare riflessioni nell’ascoltatore più attento.
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