Eromata, intervista al fotografo Luca Matarazzo

Luca Matarazzo

Luca Matarazzo. Luca Mata. Ma per chiamarlo “Luca” bastano più o meno trenta secondi perchè uno dei pochi reduci a possedere quella qualità innata capace di girare le spalle alla spocchia: l’umiltà.
Quando gli chiedi a che ora sia arrivato a Napoli, ti risponde mercoledì. Ma non ti dà il tempo di rifiatare, che comincia a giustificarsi subito dicendo che non ha ancora mangiato il babà. Perchè la forza di Luca è proprio quella di inserirsi nel contesto, in tutti quegli organigrammi che se pure non gli appartengono a leggere il documento d’identità, finiscono per appartenergli dopo pochi istanti.
Gira le spalle al superfluo, a tutto quel chiacchiericcio irruento che può sfociare nei pettegolezzi da concorrenza.
Classe ’82, professione fotoreporter. Collabora da anni con i principali quotidiani nazionali e da tre anni porta avanti quello che lui detesta definire “progetto”, la sua raccolta di istantanee “Eromata”.
Lo abbiamo intervistato ieri, ai Magazzini Fotografici di via San Giovanni in Porta, in uno dei tanti cuori pulsanti della Bella Napoli, tra una birretta e l’andirivieni di motorini 50 che, spumeggianti, scodinzolavano nel vico.

intervista a Luca Matarazzo

Io non sono un fotografo, ma se c’è una cosa che ho imparato negli anni e di cui vado fiero, è che nascendo nell’87, riesco ancora a percepire il valore romantico di una fotografia conservata in un cassetto, delle raccolte maniacali di una madre che le andava a sviluppare per ritrovarsele negli anni. Quei ricordi nostalgici che talvolta ti fanno scavare i morti, ma anche ammirare la repentina mutazione che negli anni assumono le pieghe dei pantaloni e le cuciture che cambiano.
Oggi i giga di uno smartphone hanno sostituito le raccolte di mia madre. E tu? Come mai hai scelto le Polaroid?
Le Polaroid nascono poco prima di me e rispecchiano un grande valore nostalgico, ho vissuto la loro epoca e quando i telefoni cellulari non esistevano, anticipavano già i tempi con il carattere dell’istantaneità. La necessità di avere una foto subito e poterla condividere. Per me, che sono un feticista degli oggetti, avere una foto su un pc e non un prodotto fisico da conservare, è come non avere nulla. Sarebbe solo una sequenza di dati che senza stampa non avrai mai davvero.

Come è nato il tuo rapporto con la fotografia? E quanto conta, o ha contato, il tuo passato nella scelta di questo lavoro
In casa mia c’era mio padre che era un grande appassionato di fotografia. Sono sempre girate tante macchine fotografiche. Io sono una persona molto timida, lo sono sempre stato. Per anni la fotografia è stato il mezzo che mi ha aiutato a comunicare e cominciare ad instaurare rapporti autentici con le persone.

In ambito commerciale, il chiacchiericcio che spesso si genera, finisce sempre per gettare un occhio alla concorrenza dandole una visione a volte positiva, a volte negativa. “Questi sono bravi e mi tolgono il lavoro, questi sono incompetenti e quindi non fanno altro che alimentare il mio successo”. Nell’epoca in cui tutti scattano a ripetizione, quanto pensi che possa infierire il mondo in cui tutti possono sentirsi “artisti” e fotografi di qualcosa, per qualcuno che fa questo di professione?

C’è una differenza tra una fotografia fatta da un professionista e quella fatta da un’altra persona. La vera chiave sta nel capire che tipo di comunicazione si vuole fare. Chi lo fa in privato, per dire quanto sono bello, quanto è figa la vacanza che ho fatto, lo mette in atto seguendo certi canoni. Quello che faccio io è un’altra cosa: prima di partire, so già perfettamente cosa devo fare, vengo pagato per questo e devo accontentare il cliente.
Se oggi dovessi fare una critica, invece, la muoverei a noi fotografi. Quella di non essere riusciti negli anni a comunicare alle persone cosa significhi “qualità”. Mettere il filtrino su una foto non deve necessariamente essere un difetto qualitativo. “Eromata” si ispira molto a quello che potrebbe essere il selfie di una ragazzina, la vera differenza è reinventarl, trasformandolo in un concetto che sappia davvero comunicare un’idea.

Sei arrivato a Napoli per la prima volta, hai avuto modo di girare tra i suoi vicoli. Oggi la nostra città è alimentata da milioni di turisti e cosa ancor più importante, la sua essenza è proiettata sugli schermi di tutto il mondo grazie ai registi che sempre più numerosi scelgono di girarci le riprese: se Luca dovesse accostare Napoli ad una modella dei suoi scatti, come vedrebbe la “ragazza Napoli”?
Sicuramente molto attiva. Una donna con le palle che bisogna quasi frenare per non finire per essere sovrastati dalla sua personalità.

L’approccio a “Eromata”, la sua analisi, potrebbe facilmente sfociare in un bigottismo che sfoci nel maschilismo spicciolo in qualche commento che tenga conto solo dei pregiudizi. Qual è la tua chiave di lettura?

In realtà sono sempre stato considerato un forte femminista. Apprezzo le donne, ho un profondo rispetto per loro e per il loro essere. Talmente profondo che se vogliono farsi fotografare nude, chi cavolo è un uomo per dire sei questo o sei quell’altro. Spesso sono proprio le donne ad attaccare le altre donne solo perché queste hanno voglia di mostrarsi. Io non lo trovo corretto. La libertà di una donna, spesso, passa proprio attraverso il desiderio di mostrarsi. Quello di nascondere le insicurezze e prendere davvero coscienza del proprio corpo. Ciò non vuol dire che i rapporti debbano basarsi solo sull’estetica, ma l’estetica, nelle donne come negli uomini, è un approccio importante della nostra vita.
La cosa davvero importante è variare il canone di bellezza, ampliarlo. Le ragazze con le quali collaboro non sono modelle che lo fanno per mestiere, non fanno sfilate e hanno tutte fisicità differenti. Non siamo tutti George Clooney o Heidi Klum. Siamo persone normali che tendenzialmente si sposano o stanno con persone normali. Abbiamo un desiderio per queste persone. E quindi perché escluderle da un qualcosa che parli dell’Eros? Anzi. L’Eros deve essere tutto ciò che ti permette di rivederti in quello che fai. Amo l’amatoriale per questo.

Nel Cinema, come nel Teatro, i registi dicono sempre che il ritmo sia l’elemento fondamentale di una sceneggiatura, quello che, come nella posteggia ad una ragazza, sappia coinvolgere, senza stancare lo spettatore. Cos’è per te il ritmo e cosa dà ritmo alle tue foto?
Ci sono soggetti che si ripetono e ho una buona fissa per la serialità. Ad un certo punto un lavoro devi concluderlo, l’unico elemento che un fotografo ha per alimentare il ritmo è quello di sperimentare. Un qualcosa di commerciale, invece, lo porti avanti fin quando tira, la si porta avanti quasi all’infinito.

Non basta cambiare scena, cambiare soggetto?
Non credo. Molte foto le faccio a casa mia. In quel caso il problema è la fatica che fai a trovare ispirazione.
Se ti interessa fotografare una persona e lo si fa in modo convinto, finisci per raccontare sempre una storia diversa. Motivo per il quale decidi se fotografare una persona molto magra o molto in carne. La ragazza più sensuale che ho fotografato era una ragazza molto in carne. Una volta davanti all’obiettivo, mi ha rivelato un’energia pazzesca.
Poi si può essere talmente interessanti da fotografare bottiglie e farle rendere tutte in modo diverso, ma dipende solo da te stesso, da quanto tu riesci ad essere 

A Napoli la chiamiamo “posteggia”, ma quanto posteggia Luca Mata?
Zero. Ho avuto una compagna per nove anni e il mio rapporto è stato sempre fotografico. Conosco sempre prima i miei soggetti e cerco di capire come intendono l’erotismo. Mi aiuta ad entrare in empatia con loro e capire cosa posso e cosa non posso chiedere per ottenere il meglio.

La mostra è anche l’occasione per presentare il tuo libro “Anatomia del corpo erotico. vol. I “Il Culo”, dedicato, come si deduce dal titolo, ad un evergreen, una delle figure più pulpeggianti che la storia abbia mai conosciuto.
Quando me lo dicesti, il primo pensiero, da discepolo, andò a Tinto Brass. Poi mi confessasti di avergli chiesto la prefazione, che, per motivi di salute, il regista non è riuscito a regalarti.
Si parla di Anatomia. Qual è l’accezione che preferisci dare al culo? Quella vintage di un mandolino a pianta larga alla Stefania Sandrelli, o piccolo e composto di inizio 2000, quello che entusiasmava insieme a Lino D’Angiò la Napoli sintonizzata su Telenapoli Canale 21, di Yuliya Mayarchuk?
Nel libro c’è la mia passione. Tendenzialmente è una raccolta completa.
Preferisco sempre ci sia un po’ di forma, ma come dice Brass: “il culo non mente mai”.
Con lui ho parlato parecchie volte, ma potendolo fare solo al telefono, posso solo dirti che mi emozionò la sua voce inconfondibile. Gli mandai una bozza che gli piacque tanto. Ma purtroppo, in questi casi, non fai altro che parlare con le molteplici segretarie che gestiscono i suoi contatti.
Salutiamo Luca raccomandandoci di provare la frolla di Attanasio. Lo incontreremo qualche ora dopo a cena in via Tribunali. Sempre inserito, con la pacatezza di chi ti stringe la mano e l’unica incazzatura che gli si riesce a estrapolare è quella del tono adrenalinico che dice “ho fame”. Dopo la chiacchiera, possiamo dirlo: Luca ha imparato tanto dalla fotografia. Chissà quanti riusciranno ad avere le palle di imparare da lui.

A proposito di Jacopo Menna

Nato a Napoli, di domenica, a mezzogiorno, vista sul golfo e Ciro a Mergellina. Capisce che gli piace scrivere, quando, in quarto ginnasio, comincia a prendere 2 in Italiano e, a fine anno, lo salva solo la traccia libera. Si fa chiamare il Sannazaro, perché, nella vita, le doppie sono importanti, ma continuano a scriverlo tutti con due zeta. 'A vita è na strunzata, ma imparerà a conoscerla comodamente seduto sulla tazza. Perché, comunque vada, sarà sul cesso.

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