Fast fashion e futuro: la sostenibilità è un dovere

Fast fashion e sostenibilità

La designazione di fast fashion fa riferimento a una strategia di produzione utilizzata dai grandi rivenditori a partire dagli anni Novanta ed intensificatasi sempre più, basata sul passaggio rapido delle tendenze di moda dalle passerelle alle collezioni di abbigliamento, al fine di consentire ai consumatori di acquistare i capi a prezzi relativamente bassi, quasi usa e getta. Lo scopo principale della fast fashion è quello di produrre prontamente un capo in modo economicamente proficuo, per rispondere ai gusti dei consumatori in continua evoluzione e creare nuove tendenze, innescando il desiderio di acquistare un prodotto, che appare di alta moda, alla fascia di prezzo più bassa nel settore dell’abbigliamento.

Pertanto, la fast fashion non è tanto la risposta a un grande mercato di consumatori, quanto piuttosto l’esito della creazione della domanda da parte degli stessi produttori, dal momento che risulta estremamente redditizio vendere tonnellate di vestiti trendy ed economici. Essi, dunque, massimizzano il profitto introducendo a distanza di pochi giorni capi di uno stile differente – spesso replicandolo da artisti indipendenti ed usando la pubblicità per rimanere rilevanti e per promuovere mode che cambiano continuamente – e, conseguentemente, rendendo i vecchi capi obsoleti e fuori moda, inducendo i consumatori ad acquistare abiti nuovi e di tendenza. In tal modo, la fast fashion ha conquistato i nostri armadi ed è diventata enormemente popolare: marchi come Zara, H&M, Forever 21, Uniqlo, Topshop, Primark e molti altri, infatti, ne sono un esempio.

I danni ambientali ed etici innescati dalla spirale della moda veloce

In opposizione alla fast fashion è sorto il movimento slow fashion, che ha rilevato le problematiche legate alla moda veloce, ovvero il forte inquinamento ambientale da essa provocato e le condizioni di lavoro sfavorevoli imposte nei paesi in via di sviluppo. La fast fashion, infatti, ha un costo ambientale enorme: gli abiti sono prodotti in fabbriche non sottoposte a controlli, che adoperano, per la creazione di stampe dai colori accesi, tinte chimiche tossiche per i lavoratori e per l’ambiente, poiché scaricate in canali e fiumi. In tale contesto si inserisce il fenomeno del Greenwashing o “ambientalismo di facciata”, strategia di comunicazione di alcune imprese, volta alla costruzione di un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale. Inoltre, essendo la moda veloce così economica e quasi monouso, i consumatori sono indotti a gettare via i capi d’abbigliamento a ritmi molto veloci: si stima, infatti, che il 5 % dei rifiuti nelle discariche siano tessili; a ciò si aggiunge la scelta di alcune aziende di incenerire le rimanenze dei magazzini piuttosto che donarle ai bisognosi, per non svilire la propria immagine. Ne consegue che, secondo una recente inchiesta, l’industria tessile sia la seconda industria più inquinante al mondo, in grado di emettere più gas serra delle spedizioni internazionali e dell’aviazione.

Inoltre, i rivenditori di fast fashion fanno uso di manodopera a basso costo, spesso proveniente dagli Sweatshops, luoghi di lavoro caratterizzati da condizioni socialmente inaccettabili, in cui spesso ricorre il lavoro minorile e in cui i lavoratori svolgono le proprie mansioni per lunghe ore, per una paga misera e in pessime condizioni, esposti a sostanze chimiche cancerogene: in Bangladesh, ad esempio, i lavoratori degli Sweatshops guadagnano mediamente $33 al mese, dunque molto al di sotto dei $60 del salario minimo di sussistenza. Inoltre, essi sono costretti a lavorare dalle 14 alle 16 ore al giorno, in simili condizioni di rischio per la propria salute. Dal 1990, più di 400 lavoratori sono morti e migliaia hanno riportato ferite nei 50 più grandi incendi avvenuti in queste fabbriche: il crollo del Rana Plaza di Savar in Bangladesh, nel 2013, è considerato il più grande incidente legato all’abbigliamento nella storia ed ha avuto un ruolo fondamentale nel porre maggiore attenzione sulla sicurezza nel settore della fast fashion

Come ostacolare la fast fashion in favore della sostenibilità

Un consumatore consapevole può adottare svariate misure, al fine di contrastare i deleteri esiti ambientali ed etici causati dalla dilagante moda veloce, responsabile della sovrapproduzione di miliardi di capi di abbigliamento di bassa qualità ogni giorno – il 50% dei quali non sarà mai indossato. Innanzitutto, la vera “moda” non deve essere quella omologante, consistente nel seguire i trend, ma deve guidare in direzione di un futuro migliore attraverso scelte sostenibili. Pertanto, possiamo informarci sui segreti più oscuri delle industrie della moda, ad esempio attraverso la visione del documentario The True Cost, riparare i nostri vestiti piuttosto che gettarli via, privilegiare la qualità rispetto alla quantità, comprare capi di seconda mano, cercare in rete marchi etici ed ecosostenibili, informarci su quali siano i tessuti rispettosi dell’ambiente, evitare indumenti economici prodotti con tessuti sintetici, scambiare abiti che non indossiamo più con familiari ed amici, essere sensibili alle condizioni di lavoro di coloro che realizzano i nostri abiti, non solo professarci amanti degli animali, ma coerentemente non sfruttarli nel nome della moda attraverso l’acquisto di capi in pelle.

La vera moda, insomma, non deve essere uno strumento di distruzione, ma una risposta al mondo che ci circonda.

[L’immagine di copertina è tratta dal sito naturalogico]

A proposito di Adele Migliozzi

Laureata in Filologia, letterature e civiltà del mondo antico, coltivo una grande passione per la scrittura e la comunicazione. Vivo in provincia di Caserta e sono annodata al mio paesello da un profondo legame, dedicandomi con un gruppo di amici alla ricerca, analisi e tutela degli antichi testi dialettali della tradizione locale.

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