Nel caos ordinato dell’estate musicale, dove tutto sembra costruito per suonare bene al primo ascolto e sparire il giorno dopo, arriva un brano che va in controtendenza. “Sbagliare”, il nuovo singolo di Alessandro Liberini in uscita il 27 giugno per Libera Records, non cerca scorciatoie né effetti facili: è un inno all’imperfezione, alla caduta, all’urgenza di non essere sempre all’altezza. Con sonorità pop contaminate da venature rock e un testo che sfida la retorica della perfezione, Liberini firma quello che definisce il suo primo pezzo estivo, ma scritto per non esserlo. Un anti-tormentone che fa muovere il corpo e, se ci si lascia andare, anche qualcosa di più profondo.
Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare l’artista entrando nella parte più intima del suo brano.
Intervista ad Alessandro Liberini
Nel tuo nuovo singolo “Sbagliare” parli di errore come occasione. In un mondo che esige perfezione, è una scelta forte: pensi che oggi si abbia ancora il coraggio di sbagliare davvero, senza paura del giudizio collettivo?
Penso che il coraggio di sbagliare esista ancora, ma sia sempre più raro. Siamo circondati da una narrazione tossica della perfezione, dove ogni passo falso viene amplificato e giudicato. Eppure è proprio nello sbaglio che spesso si nasconde la verità più profonda di noi stessi. “Sbagliare”, per me, è quasi un atto di ribellione: rivendicare il diritto di non essere impeccabili, di cadere, di sentire, di vivere fuori dalla comfort zone.
Hai scritto il brano mentre guidavi, in movimento, quasi in fuga. Ti capita spesso di trovare ispirazione quando sei lontano da tutto? È una forma di libertà o una necessità di evasione?
Entrambe le cose. La strada, il movimento, la distanza da ciò che è quotidiano mi aiutano a liberare i pensieri. È una forma di libertà, certo, ma anche una necessità: quella di smarcarmi dal rumore, dagli obblighi, dai ruoli. Quando guido e sono solo, le parole mi vengono a trovare. “Sbagliare” è nato così: un pensiero che si è infilato tra le curve, mentre scappavo da qualcosa ma correvo verso di me.
“Sbagliare” è definito un anti-tormentone. In un tempo in cui tutto è progettato per piacere subito, è una dichiarazione d’intenti importante. C’è ancora spazio per la complessità nelle canzoni, secondo te?
Io credo di sì, anche se oggi va un po’ di moda dire il contrario. La complessità, se è autentica, arriva comunque. Magari non al primo ascolto, ma resta dentro. Il vero tormentone è quello che ti tormenta l’anima, non solo l’orecchio. “Sbagliare” non è pensato per essere consumato, ma per essere vissuto. E chi è disposto ad ascoltare davvero, secondo me, lo sente.
Il tuo sound unisce pop, rock e cantautorato. Ti muovi tra generi diversi con naturalezza: quanto è importante oggi resistere all’omologazione artistica e culturale?
È fondamentale. L’omologazione non è solo musicale, è mentale. Ci viene chiesto di essere decifrabili in dieci secondi, di rientrare in un algoritmo, in un’etichetta. Ma l’arte vera nasce nel cortocircuito tra le influenze, non nella comfort zone. Io non mi sento “pop”, “rock” o “cantautore”. Mi sento uno che ha bisogno di raccontare qualcosa, e uso la musica come strumento, senza pormi limiti di genere.
Hai alle spalle esperienze live molto diverse, da club storici a grandi palchi. Che idea ti sei fatto del pubblico italiano oggi? Ha ancora voglia di ascoltare o solo di distrarsi?
Dipende da dove ti trovi e da che cosa offri. C’è un pubblico che vuole solo distrarsi, e lo capisco: viviamo in un tempo pesante, e la leggerezza è un rifugio. Ma c’è anche un’Italia che vuole emozionarsi, riflettere, vibrare. La differenza la fai tu, sul palco: se sei vero, se ti metti a nudo, la gente si ferma e ascolta. Anche se è passata solo per caso.
La tua musica parla spesso di cambiamento, di cadute e risalite. Credi che l’arte possa ancora suggerire una via alternativa, anche solo con una canzone?
Assolutamente sì. L’arte non cambia il mondo da sola, ma cambia lo sguardo con cui lo guardiamo. E da quello sguardo nasce una scelta, un gesto, un’urgenza. Una canzone può aprire una fessura, far entrare luce dove prima c’era buio. Magari solo per tre minuti. Ma a volte, quei tre minuti ti salvano.
Nel tuo percorso artistico hai sempre cercato un equilibrio tra immediatezza e profondità. In un’epoca di slogan e velocità, è una presa di posizione quasi radicale: è questa la tua forma di resistenza?
Sì, lo è. Oggi tutto corre, tutto urla, tutto deve colpire subito. Io preferisco scavare. Dire qualcosa che magari non ti esplode in testa subito, ma ti torna a cercare dopo. La mia musica non è fatta per vincere una corsa, è fatta per restare. E in un mondo che brucia tutto in fretta, scegliere di rallentare è una forma di resistenza. Anche questo, forse, è “sbagliare” nel modo giusto.
fonte immagine: ufficio stampa