Cesare Pavese e Primo Levi: la concezione del dolore

Cesare Pavese e Primo Levi: concezione del dolore

Cesare Pavese e Primo Levi sono due degli intellettuali più noti del panorama letterario e culturale italiano, sui quali ancora si “discute”.
Grazie ai vari ragionamenti critici nati nel corso del tempo sull’identità dei due autori, è possibile intercettare i caratteri in comune tra i due autori, apparentemente diversi e spesso considerati in “contrasto”.
In realtà tra i temi trattati da Levi e Pavese, molti sono ricorrenti. Tra questi sicuramente la concezione del dolore.

Cesare Pavese e Primo Levi: concezione del dolore

Uomo, scienziato, prigioniere e scrittore, proprio questi due ultimi aspetti caratterizzarono la fase finale della vita di Primo Levi, fortemente ferito e provato dall’esperienza in un lager nazista.
Lo scrittore scelse di scrivere della propria prigionia ad Auschwitz, per far sì che se ne conservasse memoria.
“Vorrei che tutti ricordassero cosa accadeva nei lager”, dichiarò più volte Primo Levi, aggiungendo: “Quel sistema distrugge l’umanità, in chi lo esercita e in chi lo subisce in egual misura. E ancora oggi si può dire che l’umanità è minacciata nel suo complesso da pericoli ben noti, ogni persona deve combattere per far valere i propri diritti e per mantenersi uomo”.
Secondo lo scrittore era necessario trovare un deterrente che annientasse il dolore, che però appartenendo all’esistenza stessa, facendone parte in quanto componente di ogni uomo, non può essere controllato. La concezione del dolore spinge Primo Levi a chiedersi cosa significhi esser considerato diverso e perché tale aspetto rappresenta un problema. Proprio a testimonianza della sofferenza vissuta da egli stesso e da altre persone innocenti, lo scrittore pubblicò Se questo è un uomo. L’anno seguente, quel dolore probabilmente lacerante, lo spinse a togliersi la vita, è l’11 aprile del 1987. Morì di sabato e il suo feretro fu portato a spalla da alcuni ex partigiani, inumato nel cimitero israelitico di una città Torino, che per giorni non smise di piangere uno dei suoi figli più coraggiosi.
A differenza di quanto si possa credere, l’opera all’interno della quale Levi parla in modo oggettivo e diretto del dolore è Versamina; nell’opera citata, lo scrittore mette l’uomo dinnanzi al dolore, come se fossero faccia a faccia, in una visione anacronisticamente concreta, quasi come se fosse tangibile. Tra personaggi principali e secondari, Levi afferma saldamente che il dolore non si può togliere, non si deve, perché è il nostro guardiano. Una dichiarazione forte, che esprime perfettamente quanto sostenuto anche in altre opere, quella visione del mondo che sconfina in una dicotomia tra passato e presente, tra ciò che è stato e non doveva avvenire. In questo caso il dolore può essere quello di un’assenza, il vuoto provato dentro sé, il dolore di un fallimento, il dolore per la fine di un amore, ma rappresenta allo stesso tempo degenerazione, brutalizzazione, elementi tipici dei Lager nazisti, che Levi introduce nella società che crea, perfettamente contestualizzabile.
Versamina si basa sugli evidenti tentativi di Primo Levi di ricercare una spiegazione al dolore subito, per dare un senso (se così lo si può chiamare) a quella terribile condizione vissuta.

Quella stessa speranza, seppur labile così come nello scrittore torinese, si ritrova in Cesare Pavese, un altro esponente importantissimo della letteratura italiana, da sempre tormentato. Quella di Pavese è una concezione di speranza che si lega ad una serie di angosce esistenziali e che sfocia, anche in questo caso, nel suicidio.
L’effetto del dolore è quello di creare un filo spinato nella mente e costringere i pensieri a evitare certe aree. A differenza di Levi, Pavese accettava la sofferenza, cercando conforto nell’amicizia e nella scrittura. Pavese affermava che il dolore fosse una cosa bestiale ed atroce, una vera e propria lotta, ma sfuggire ad esso non sarebbe servito a niente, piuttosto appariva necessario dargli un senso o quantomeno accettarlo, non opporsi.

Ricordiamo che Pavese fu uno degli scrittori e poeti più influenti della casa editrice Einaudi; l’intellettuale era solito mescolare il mondo classico e il mondo pagano, in una visione dolorosa e allo stesso tempo oggettiva, della realtà.
Da un lato l’irrazionalismo, le pulsioni, il sangue, la terra, e dall’altro il tentativo di matrice illuministica di razionalizzare per comprendere, per dare un senso al dolore.

I Dialoghi con Leucò rappresentano l’espressione compiuta del mondo interiore di Pavese, dove viene fuori il suo mondo interiore, tra paure, incubi, desiderio di serenità. Una ricerca costante dove però lo scrittore non riesce a trovare una soluzione positiva. Il dolore non ha soluzione, o meglio se una soluzione c’è, se un riscatto è possibile, esso è dato solo dal rifugio nel mondo dell’arte, dalla contemplazione della bellezza di una natura divina e selvaggia, dalla magia di una prosa poetica colta, musicale.

Per quanto concerne Cesare Pavese, così come Primo Levi, gli studiosi e gli appassionati di letteratura, hanno parlato di “sensibilità fuori dal comune”, una sofferenza interiore senza possibilità di guarigione.
Nella poetica dei due intellettuali, uno torinese e l’altro piemontese, si riconosce e percepisce una forte inquietudine esistenziale, alla quale neanche la poesia può dare sollievo.
Così come Levi, anche Pavese non riuscì a sopportare quel dolore, di cui scrisse a lungo, onnipresente e latente. 
Lo scrittore piemontese si uccise in una fredda camera d’hotel, il 27 agosto del 1950. Probabilmente una decisione a lungo meditata e citata nei suoi scritti, che si concretizzò in una Torino desolata.

Cesare Pavese e Primo Levi sono due menti illustri che hanno contribuito a dare un senso ad una visione che appartiene a tutti; chiunque prova a dare una spiegazione al proprio dolore, spesso senza risposta. 

 

 

Immagine in evidenza: fonte Instagram – collage Gerardina Di Massa

A proposito di Gerardina Di massa

Vedi tutti gli articoli di Gerardina Di massa

Commenta