27 agosto 1950: il terribile addio a Cesare Pavese

27 luglio 1950: il terribile addio a Cesare Pavese

Il 27 agosto del 1950 morì suicida a soli quarantuno anni il celebre e tormentato poeta italiano Cesare Pavese.
Dopo ben settantuno anni la sua personalità così forte e per tanti versi difficile, taciturna, fragile fa ancora breccia nelle menti di chi lo ricorda attraverso le parole delle opere che scrisse.
“Io ci vedo con un occhio solo” è una frase celebre pronunciata dallo scrittore, durante un’intervista. Un’affermazione dura e terribilmente forte, che sottolinea ancora oggi quel velo di tristezza che caratterizzava l’animo di Pavese.
Quell’occhio solo rivela quella vocazione al suicidio che Cesare Pavese stesso chiamerà “vizio assurdo”.

Ricordiamo che il letterato italiano, di origine piemontese, era ed è ancora oggi uno dei più grandi intellettuali del XX secolo.

Tra i suoi tanti capolavori, sicuramente “Lavorare stanca”: una raccolta di poesie all’interno della quale è possibile scorgere alcune delle argomentazioni e dei temi cardine che caratterizzeranno anche le opere successive. Nell’opera emerge una forte solitudine ma soprattutto Pavese ribadisce l’odio nei confronti delle Langhe e dei luoghi della sua infanzia.

Nel frattempo inizia a scrivere i racconti che verranno pubblicati postumi, prima nella raccolta “Notte di festa” e poi, nel 1939, completa la stesura del suo primo romanzo breve tratto dall’esperienza del confino intitolato “Il carcere“. In quello stesso anno scrive “Paesi tuoi”. Si tratta della prima opera di narrativa data alle stampe e del primo successo dello scrittore, pubblicato poi dalla casa editrice Einaudi nel 1942.

Un’attenta analisi dell’opera giovanile consente di ripercorrere le tappe della maturazione artistica di Pavese: una continua ricerca linguistica e stilistica ma soprattutto l’individuazione di quelle che egli stesso definì “intuizioni letterarie”, di cui si coglieranno i frutti nel periodo della maturità artistica.

Era una domenica sera quando gli occhi del poeta si chiusero per sempre, in una stanza d’hotel sito in piazza Carlo Felice, a Torino.
Un inserviente, insospettito dal silenzio di “quell’ospite”, aprì la porta della stanza e vide un uomo vestito di tutto punto, senza scarpe, posizionate accuratamente (in modo quasi maniacale) accanto al letto e sul comodino tante bustine di sonnifero aperte.
Un suicidio che ha sin da subito suscitato molti dubbi ed interrogativi e che, soprattutto, ha lasciato con l’amaro in bocca.
Lasciò un ultimo messaggio sul frontespizio di quello che egli stesso dichiarava di essere il suo libro preferito: “Dialogo di Leucò”.

“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene?”.
(non fate troppi pettegolezzi).

In realtà i pettegolezzi emersero immediatamente: furono diverse le voci dei giornalisti pronti a sentenziare su quel suicidio ma anche dei tanti “curiosi” che giunsero nei pressi dell’Hotel e, che non si sa bene per quale motivo, espressero una serie di allusioni che misero l’accento su una società nella quale chiunque era disposto a dire o inventare, come in questo caso, speculando sulla morte di una persona.
Certo è che Cesare Pavese non era una persona qualunque: era il Poeta per eccellenza, un intellettuale seguito ed apprezzato dal pubblico e dai suoi stessi amici. Ma la sua morte, in un contesto molto simile a quello attuale, dove perduravano gli stessi dogmi della realtà di oggigiorno, fece scalpore e tutti si sentirono in diritto di dire qualcosa, dai critici, ai giornalisti, dagli amici a dei semplici conoscenti.

27 agosto: tanti dubbi sulla morte del celebre autore 

Quel suicidio destò scalpore, ovviamente. E la prima ipotesi al vaglio degli inquirenti che indagarono sul caso fu quella della delusione amorosa.
Cesare Pavese in quel periodo era “impegnato” in una sorta di relazione amorosa, definita poi univoca dai critici, con l’attrice americana Constance Dowling, la quale non contraccambiava quel sentimento.
Un rapporto difficile, così come altre relazioni sentimentali vissute dall’autore. In realtà, secondo gli studiosi che ancora oggi s’interrogano su quel terribile gesto, Pavese avrebbe lasciato, e dunque scritto, una “spiegazione” a quanto poi fece.

In data 25 marzo, scrisse: ”Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte”.

Tale affermazione, leggibile ne “Il Mestiere di vivere”, cruda e fortemente sentita, rappresenta il preludio di quanto sarebbe presumibilmente poi successo; l’opera sarà pubblicata poi due anni dopo la morte dello scrittore da Einaudi.
L’amore risulta talmente impossibile, incapace di colmare quel senso di solitudine ed emarginazione che inevitabilmente diventa una condanna… nel caso dell’autore, una condanna a morte.
Nell’ambito della personalità fragile e tendenzialmente depressa di Cesare Pavese, l’amore può essere considerato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Probabilmente solo, tristemente incompreso, illuso e disilluso al contempo, avvilito, egli sceglie la morte, come ultimo gesto da compiere.
L’uccidersi, allora, significa non già la verifica del fallimento ma, al contrario, la giusta risposta di resistenza, di valore e di esemplarità al destino maligno e nemico.

“Per togliersi la vita ci vuole umiltà, non orgoglio… Non parole, un gesto. Non scriverò più”. Scrisse, chissà preso… o meglio dire tormentato, da quali pensieri. In realtà Pavese ha smesso di scrivere ma non ha smesso di insegnare. I suoi scritti, ancora oggi studiati, citati, analizzati, documentati, tradotti sono la prova di quanto la sua essenza sia ancora viva in ogni lettore, nel cuore di quanti non smettono di chiedersi perché e negli occhi di coloro che leggono le sue parole talvolta taglienti, talvolta ardenti ma sempre straboccanti di significato.

Nelle opere e nella formazione di Cesare Pavese il tormento e anche l’ansia intellettuale non sono nascosti o celati dietro a finti giri di parole ma si condensano in una letteratura portatrice di alti valori sociali, morali, politici; diventano argomento letterario vero e proprio.

Il 27 agosto del 1950 non rappresenta la fine ma probabilmente l’inizio di un nuovo percorso poetico e letterario dell’autore.

I credenti dicono che quando si muore si passa a nuova vita, potremmo pensare che anche per Pavese sia stato così e che ora quei tormenti non facciano più parte del suo essere.
Ma indipendentemente da ogni illazione o dettaglio religioso, quel 27 agosto l’Italia perse un grandissimo poeta ed intellettuale, vittima di un sistema che già allora (settantuno anni fa) non funzionava come avrebbe dovuto.
Perchè Pavese non si confidò con nessuno? Per quale motivo era solo in quella stanza?
Si tratta di domande alle quali non troveremo mai una risposta ma si spera che studiando le sue opere, analizzandone i contenuti, si potranno in qualche modo comprendere i dettagli di ciò che è stato.
Un suicidio apparente. Una morte preannunciata, presumibilmente. Un intellettuale che (forse) trovò troppe risposte nella letteratura, sua fonte di ispirazione e materiale inestimabile a nostra disposizione oggi.

Non è dato saperlo.
Certamente però, al di là di tutto, senza pretendere risposte che non arriveranno e che invece si tramuteranno in interrogativi senza fine, possiamo tenere alta la sua memoria e fare di ogni giorno un 27 agosto, non come giorno triste ma come rimembranza di un uomo, di un autore e poeta che viveva nell’ombra della paura e che non ha trovato via di uscita a quel tormento.

 

Immagine in evidenza: www.ripassofacile.blogspot.it

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