Se dovessimo pensare a Márquez (qui) a due anni dalla sua morte, penseremmo all’odore delle mandorle amare, al colore del ghiaccio e alle risate che fanno spaventare le colombe. I libri di Márquez non sono semplici opere da percorrere con gli occhi, ma creature in carne ed ossa, frementi e vive, da assaporare in ogni rivolo della loro carnosità cartacea. Il 17 aprile di due anni fa Márquez tornava al ventre della terra, quella terra da cui ha attinto il fondo per plasmare il profilo dei suoi romanzi: nessuno più di lui è riuscito a farsi cantore delle pulsioni inconsce e della bestialità disperata, della solitudine più sorda e della liricità della miseria umana, assecondando il movimento sinuoso della penna che ha saputo insinuarsi come un bisturi per sezionare l’istintività dei corpi e scomporre la solitudine in tante piccole unità.
Il mondo di Márquez
Il suo mondo è un mondo cotto dal sole allucinato dell’America Latina, che illumina violentemente la solitudine del formicaio umano che si affastella tra un combattimento di galli e un amplesso brutale, è un mondo di folklore impulsivo e di morti che continuano a ossessionare i vivi rimanendo legati ad un albero o ricamando il telaio della memoria. La solitudine della sua Macondo in “Cent’anni di solitudine” è incarnata nelle nostre stesse viscere, come un germe che ci solletica e ci marchia a vita: è la stessa solitudine del colonnello Aureliano Buendìa, che si ritira nel suo laboratorio a dipingere pesciolini d’oro, è la disperazione di Rebeca Buendìa, che ingoia la terra bagnata e vergine a grandi bocconi per mettere a tacere l’assedio dei suoi fantasmi, è lo sguardo di Amaranta che si umanizza nella solitudine, ricamando il suo sudario per sostenerla meglio, non per disfarla. Márquez è esplosione di colori, odori inebrianti e mortali allucinazioni, è l’alito conturbante della leggenda e delle tradizioni, è il volto morboso e ossessivo della bellezza, quella bellezza deturpata come un fiore giallo da stringere tra le mani: è la bellezza inquietante di Remedios che sparisce in un fascio di luce e in un battito di ali di farfalla, dissolvendosi tra le lenzuola stese ad asciugare e le radici della terra.
Ci ha lasciato un linguaggio nuovo e onnivoro, una parola che riesce a farci sentire sulla lingua la poesia della bestialità e la miseria contenuta in ogni slancio di misticismo: la sua parola, perfettamente levigata come una gemma selvaggia e pura, accarezza la plasticità dei corpi dei personaggi e segue il profilo di ogni slancio, dal più nobile al più animalesco e perverso, facendoci sentire il rimescolare del loro stesso sangue e offrendoci lo splendore dei loro declini e la liricità delle loro brutture.
Come non pensare agli amori che Márquez ci ha lasciato?
Amori impulsivi, trattati quasi come accoppiamenti animaleschi, amori disturbati, amplessi incestuosi dettati dalla disperazione, amori morbosi consumati nella polvere del patio o amori nobili che durano più di cinquant’anni, come quello di Florentino Ariza de “L’amore ai tempi del colera” che aspetta per più di mezzo secolo la sua Fermina Daza, vomitando bile e impiastri di sangue e attendendola fino alla vecchiaia, perché una Dea Incoronata la si può aspettare anche per tutta la vita. Tra i due scoppia un cataclisma d’amore durato più di cinquant’anni, e, nell’attesa di ritrovare la sua Dea, Florentino Ariza la cerca immergendosi nei corpi delle altre, baciando i tratti somatici di migliaia di donne pur di ritrovarla, la implora ubriacandosi con le boccette del suo profumo (perché gli uomini innamorati lasciano con sè una scia di morte, profumi e sangue), e infine i due si ritroveranno soltanto alle soglie della vecchiaia, amandosi non più come due bestie che si accoppiano, ma come due animali stanchi e desiderosi di perlustrare l’uno l’anima dell’altra. All’amore è dedicato anche il suo “Memoria delle mie puttane tristi”, che analizza la coscienza di un uomo di novant’anni che dopo una vita passata a pagare le donne per il sesso, scopre l’amore osservando il corpo acerbo di un’adolescente vergine che dorme. L’amore tra il prete esorcista e una ragazzina posseduta è trattato con finezza sublime in “Dell’amore e altri demoni”, a ricordarci che l’amore può anche avere il profilo di un ciuffo di capelli rossi che esce da una bara. Márquez forse ora sarà approdato nella sua Macondo, a guardare con occhio commosso le sue creature letterarie che si umanizzano nella solitudine, magari sarà sul plotone di esecuzione insieme ad Aureliano Buendìa o starà decifrando le pergamene di Melquiades, che si annullano e si annichiliscono perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non hanno una seconda possibilità sulla terra. Ci ha lasciato il colore del ghiaccio, parole in grado di scarnificare il fondo inestinguibile della nostra condizione umana, una compagnia anche nella più profonda solitudine: pur vivendo e ansimando da soli, sappiamo di non essere completamente desolati, perché quelle parole saranno sempre lì, a salvarci la vita, a rievocarci l’odore delle mandorle amare e a ricordarci che il primo della stirpe è legato ad un albero e l’ultimo se lo stanno mangiando le formiche. Ci ha lasciato gli slanci di poesia contenuti anche nelle pozzanghere più torbide e nei rivoli più morbosi, le sue foglie morte e le sue morti annunciate, ci ha lasciato un bagaglio di carta, parole, sensi e vita che, anche dopo una sola lettura, si incarnano tragicamente nel nostro ventre, dandoci quasi uno sguardo da chiaroveggenti sul mondo. Come gli occhi di Aureliano Buendìa.
Sono due anni che Márquez non c’è più, ma il suo universo continua ancora a illuminare la nostra solitudine e a salvare delle vite. E per quanto ci si sforzi di guardare nell’abisso di Márquez, giungeremmo sempre alla stessa, drammatica conclusione: quell’abisso siamo noi stessi.