Filostrato di Boccaccio, riflessioni su Pandaro

Filostrato di Boccaccio

Il Filostrato di Boccaccio è fra le opere più “misteriose”: incerta storia filologica, incerta attribuzione delle fonti (intese in senso stretto), incerta identità dei personaggi.

Il testo di seguito proposto è tratto, fortemente riassunto e rimodulato dal contributo assai più esteso e approfondito Le vie indiscrete della passione: riflessioni sul Pandaro del Filostrato (e proposte sul Filostrato del Decameron), presentato in occasione del seminario internazionale di Studi intorno a Boccaccio (Boccaccio e dintorni, quinta edizione). In tale contributo si è cercato di rintracciare alcuni fili genetici, che possano almeno in parte avvicinarci al canovaccio compositivo tenuto in mente dal Certaldese.

Il Filostrato di Boccaccio: riflessioni su Pandaro

Nell’economia delle ottave del Filostrato, il personaggio di Pandaro riveste un ruolo importantissimo per lo svolgimento dell’azione narrativa. Contraltare di Troiolo nella visione delle “mondane cose”, per certi versi prefigurazione – con le dovute cautele e differenze – del cortigiano ante litteram (fedele secretarium e confidente del suo amico-signore) e al tempo stesso carattere tipico da commedia, il personaggio di Pandaro resta tratteggiato dal suo autore – come del resto nella tecnica che lo contraddistingue – come non categorizzabile: immerso nelle “antiche istorie” (da cui l’autore, per sua stessa ammissione, ha tratto la materia del suo libello), ma lontanissimo dall’epos, Boccaccio lo dipinge come giovane dal carattere modernissimo, forgiato dall’esperienza; abile affabulatore, dote (o vizio) che lo innalza a ruolo di comprimario, sicuramente figura imprescindibile al fine della realizzazione, seppur breve, dell’esperienza amorosa di Criseida e Troiolo. Il personaggio ha origini misteriose; suggestive vicinanze sembrano intravedersi, invece, nel Pandaro dell’Iliade (per somiglianza di interessantissimi schemi psicologici) e – seppur con le chiarissime differenze naturali – nel Mercurio dell’Eneide (nel sensus circoscritto che assume nella vicenda amorosa del libro IV del poema).

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La collisione fra eros ed epos – fra passio e ratio – viene evidenziata proprio dal Certaldese, che, più tardi, nelle sue Genealogia deorum gentilium, parlando della poesia cita un esempio significativo:

«[…] intendit Virgilius per totum opus ostendere quibus passionibus humana fragilitas infestetur, et quibus viribus a constanti viro superetur. Et cum iam non nullas ostendisset, volens demonstrare quibus ex causis ab appetitu concupiscibili in lasciviam rapiamur, introducit Dydonem generosi tate sanguinis claram, etate iuvenem, forma spectabilem, morbus insignem, divitiis abundantem, castitate famosam, prudentia atque eloquentia circumspectam, civitati sue et populo imperantem, et viduam, quasi ab experientia Veneris concupiscientie aptiorem. Que omnia generosi cuiuscunque hominis habent animorum irritare, nedum exulis atque naufragi, et in incognitam regionem deiecti atque subsidio indigentis. Et sic intendit pro Dydone concupiscibilem et attractivam potentiam, oportunitatibus omnibus armatam; Eneam autem pro quocunque ad lubricum apto et demum capto. Tandem ostenso quo trahamur in scelus ludibrio, qua via in virtutem revehamur, ostendit, inducens Mercurium, deorum interpretem, Eneam ob illecebra increpantem atque ad gloriosa exhortantem. Per quem Virgilius sentit seu conscientie proprie morsum, seu amici et eloquentis hominis redargutionem, a quibus, dormientes in luto turpitudinum, excitamur, et in rectum pulchrumque revocamur iter, id est ad gloriam.»

Nel passo, Boccaccio spiega chiaramente come la vicenda di Enea e Didone serva «sub velamento poetico» a mostrare come «la concupiscevole e attrattiva potenza» – ossia la seduzione erotica – avviluppi «ciascuno atto a tal giuoco, dal quale allora viene fatto allacciare», e diventi necessario, a tal punto, l’aiuto «della propria coscienza o la riprensione dell’amico e uomo eloquente» per risvegliarsi dalla condizione voluttuosa; sostituendo ai nomi di Didone, Enea e Mercurio, rispettivamente i nomi di Criseida, Troiolo e Pandaro sembrerebbe affrescato, a distanza di anni, un riassunto calzante del poemetto giovanile; in altre parole, si può interpretare il personaggio di Pandaro come un anti-Mercurio. Ripercorrendo l’analisi che l’autore delle Genealogie ci offre, possiamo dire: se Virgilio aveva voluto costruire l’esempio dell’amico giusto, Boccaccio aveva voluto informare i suoi “giovani amadori” avvertendoli di quali pericoli li avrebbero raggiunti a seguire un cattivo consigliere e avrebbe mostrato «quali passioni turbino la fragilità umana» e «per quali cagioni dall’appetito concupiscevole siamo condotti in lascivia». Evidenziato il suggestivo rapporto fra Eneide e Filostrato, nei termini di Mercurio (saggio consigliere) e Pandaro (sciocco consigliere), si passi ora al rapporto fra Iliade e Filostrato, nei termini delle identità del Pandaro omerico e del Pandaro boccacciano.

Riprendendo la polarità fra epos ed eros e considerando ora non il rapporto FilocoloFilostrato, bensì IliadeFilostrato, possiamo notare come il fulcro del cambio d’asse fra epos ed eros non sta nella diversità con cui è cantato l’amore (nel rapporto tra Filocolo e Filostrato rispettivamente amore pietoso e amore passionale), quanto più nella funzione logica affidata a Pandaro, coerentemente con l’ambiente narrativo che lo circonda: sia nell’Iliade quanto nel Filostrato, Pandaro è elemento d’interferenza passionale in vicende epiche. Nell’Iliade la sua stolidità frange le speranze di pace, nel Filostrato il suo cattivo consiglio frange la possibilità di avere Troiolo in battaglia, oramai preso dalle questioni amorose. Avviene fra l’altro qui ciò che Virgilio aveva evitato che avvenisse al suo giovane eroe nell’Eneide, con l’entrata in scena di Mercurio (il buon consigliere).

Ipotesi sulla genesi di Pandaro

Negli anni in cui Boccaccio era impegnato nella composizione dei primi testi a Napoli, alla corte angioina era presente Barlaam di Seminara, che fra il 1339 e il 1341 aveva avuto incontri con Roberto d’Angiò (prima diplomatici, poi culturali – avendo ricevuto l’incarico di riordinare la biblioteca angioina e di lavorare, collaborando con Paolo da Perugia, alla compilazione delle Collectiones); considerando il giro di tempo entro cui si attesta la compilazione del Filostrato, le coordinate cronologiche sono pressoché sovrapponibili con quelle della presenza a Napoli di Barlaam Calabro; Boccaccio avrebbe potuto conoscerlo e se si ricorda che Barlaam avrebbe lavorato – seppure più tardi –  ad una traduzione in latino dei primi libri dell’Iliade destinata a Petrarca, l’ipotesi di un discorso fra Boccaccio e Barlaam sui versi omerici – e una conseguente suggestione di una certa inclinazione del Pandaro omerico, seppur in via indiretta, nel corrispettivo personaggio omonimo del Filostrato –  può essere ora vista in una luce diversa.

Boccaccio avrebbe potuto ascoltare passi particolari dell’Iliade, soprattutto se l’ipotesi è sostenuta non solo dalla costruzione di Pandaro, ma anche dal passo delle Genealogia deorum gentilium in cui l’autore ferma su carta un ricordo significativo:

«Traho preterea aliquando Barlaam, Basilii Cesariensis monachum, Calabrum nomine, olim corpore pusillum, pregrandem tamen scientia, et Grecis licteris adeo eruditum, ut imperato rum et principum Grecorum atque doctorum hominum privilegia haberet, tstantia nedum his temporibus apud Grecos esse, sed nec a multis seculis citra fuisse virum tam insigni tanque grandi scientia preditum. Nonne ergo huic et potissime in rebus ad Grecos spectantibus ego credam? Non enim opus suum aliquod vidi, esto composuerit non nulla audiverim; habui tamen ex suis scripta quidam in nullum reducta librum, nec aliquo insignita titulo, que, et si illum non satis in Latinis licteris instructum ostenderent, eum tamen multa vidisse atque perspicacissime sensisse monstrabant […]».

Fra quegli “appunti” di Barlaam potrebbe esservi stata anche la traduzione, o parte di essa, di quei primi cinque libri dell’Iliade e l’ascolto della vicenda del Pandaro omerico (insieme alla vicenda amorosa pseudo-biografica) potrebbe essere stata la spinta per quell’urgenza a comporre velocemente il Filostrato.

In ricordo di un amore: dal Troiolo del Filostrato al Filostrato del Decameron

Dopo essere stato protagonista del poemetto giovanile, il nome di Filostrato torna tra le pagine del Decameron; qui riecheggia lo schema psicologico di marca patetico-elegiaca che già era stato di Troiolo e che contraddistingue ora l’amante infelice della brigata. Allo scopo di comparare le due figure e segnalare un possibile percorso genetico fra Troiolo e Filostrato, si ricordi la confessione che il giovane infelice ammette alla brigata in conclusione alla III giornata:

«Amorose donne, per la mia disavventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza d’alcuna di voi stato sono a Amor subgetto, né l’essere umile né l’essere ubidente né il seguirlo in ciò che per me s’è conosciuto alla seconda in tutti i suoi costumi m’è valuto, che io prima per altro abandonato e poi non sia sempre di male in peggio andato; e così credo che io andrò di qui alla morte. E per ciò non d’altra materia domane mi piace che si ragioni se non di quello che a’ miei fatti è più conforme, cioè di coloro li cui amori ebbero infelice fine, per ciò che io a lungo andar l’aspetto in felicissimo, né per altro il nome, per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire mi fu imposto».

Le parole di Filostrato sono fortemente eloquenti e il suo caso è avvertito dai compagni come pietosissimo tanto da poter contravvenire, nei fatti, alla regola imposta da Dioneo in apertura alla I giornata:

«Donne, il vostro senno più che il nostro avvedimento ci ha guidati qui; io no so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare: li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora che io con voi poco fa me ne usci’ fuori. E per ciò o voi a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico, quanto alla vostra dignità s’appartiene), o voi mi licenziate che io per li miei pensier mi ritorni e steami nella città tribolata».

Il suo dolentissimo stato si avverte anche nella ballata che intona a conclusione della giornata IV ed è qui che sembrano manifestarsi fortissime le reminescenze del casus amoris del Filostrato; si ricordi la ballata che chiude la quarta giornata del Decameron.

Ciò che ha visto vittima Filostrato ha visto similmente vittime Troiolo (a cui è mancata fra l’altro una guida, un buon consigliere) e Criseida.

In altre parole: la triste condizione di Filostrato pare da leggersi come risultato di una serie di fattori esterni, di contingenze esterne alla mera volontà umana; così come era accaduto nel poemetto giovanile al disperato e infelicissimo Troiolo.

Fonte immagine in evidenza: Wikipedia

A proposito di Roberta Attanasio

Redattrice. Docente di Lettere e Latino. Educatrice professionale socio-pedagogica. Scrittrice. Contatti: [email protected] [email protected]

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