Il Tribunale di Tokyo: limiti e problematicità

Il Tribunale di Tokyo e i suoi limiti

Dal Settembre del 1945 all’Aprile del 1951 il Giappone è stato occupato militarmente dalle potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale. Di tale occupazione si occuparono principalmente gli Stati Uniti, i quali si erano prefissati l’obbiettivo di rendere il Giappone un Paese incapace di fare la guerra. Per il raggiungimento di tale scopo era necessario prima di tutto fare ordine nel passato militarista del Paese ed è con questo auspicio che viene istituito il Tribunale di Tokyo. 

Dal 1931 al 1945 il Giappone infatti aveva seguito una linea piuttosto aggressiva ed espansionistica in politica estera. Inoltre esso si era macchiato di una serie di crimini efferati ed atrocità perpetrati ai danni dei civili dei popoli nemici. Alla luce di tutto questo, il 3 maggio del 1946 fu istituito dagli Alleati quello che è comunemente noto come Tribunale di Tokyo ma la cui denominazione ufficiale è Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente. Esso, omologo del Tribunale di Norimberga per giudicare i criminali nazisti, aveva il compito di giudicare i crimini di classe A, ovvero i crimini contro la pace. Le 28 persone che furono sottoposte a processo erano essenzialmente anziani ufficiali della marina e dell’esercito e funzionari di governo, ma tra essi non vi era l’imperatore Hirohito.

Il fatto che si sia optato per la non perseguibilità dell’imperatore Hirohito, soprattutto per volere del governo statunitense con l’appoggio britannico e il disappunto dell’Unione Sovietica, è uno degli elementi che ci consentono di capire quanto in realtà il Tribunale di Tokyo sia controverso. Dietro la scelta di estromettere l’imperatore Hirohito dal Processo, vi era l’intento da parte degli Stati Uniti di ottenere il sostegno dell’Istituzione imperiale alle riforme dell’amministrazione americana pensate per il Giappone. Tra l’altro gli Stati Uniti erano ben consapevoli del fatto che colpire Hirohito, dal punto di vista del popolo giapponese, sarebbe stato un atto intollerabile e che avrebbe sicuramente determinato una violenta sollevazione da parte della popolazione. 

A riprova del fatto che l’andamento del Tribunale di Tokyo proseguiva in maniera alquanto ambigua, c’è da considerare il fatto che alcuni crimini commessi dai giapponesi nei territori occupati furono del tutto occultati. Infatti, ancora una volta per volontà degli Stati Uniti, non furono prese in considerazione prove riguardanti crimini atroci. Uno di questi è il tristemente noto Massacro di Nanchino, perpetrato nel dicembre del 1937 dall’Esercito giapponese contro la popolazione civile. Venne occultata anche tutta la questione delle comfort women, ovvero donne che furono costrette a prestare conforto ai soldati giapponesi sostanzialmente sotto forma di prestazioni sessuali. Infine, venne nascosta tutta la documentazione degli esperimenti che erano stati condotti su prigionieri di guerra dall’Unità 731: essa era costituita da medici e biologi dell’Esercito giapponese che effettuarono delle ricerche per la creazione di armi chimiche e biologiche all’interno di un campo di prigionia in Manciuria. Gli Stati Uniti riuscirono ad impadronirsi di questa documentazione garantendo al Giappone la totale omissione delle attività dell’Unità 731 nel Tribunale di Tokyo.

Numerose critiche sono state mosse contro il Processo, ma una significativamente importante è quella inerente alla tesi della victors’ justice. Si tratta di un’espressione coniata per indicare un’applicazione distorta della giustizia nei confronti dei vinti da parte dei vincitori. Essa implica generalmente, ma non solo, la clemenza nei confronti dei crimini e reati commessi dai vincitori.

Ciò trova un’applicazione concreta nel Tribunale di Tokyo in virtù del fatto che dalla lista dei crimini erano stati estromessi ad esempio il colonialismo occidentale e atrocità come lo sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki; per altro la categoria della victors’ justice si traduce, nel caso specifico di cui stiamo discutendo, anche nel fatto che la corte fosse composta esclusivamente da giudici rappresentanti delle nazioni vincitrici. Queste sono le ragioni che, dal punto di vista del giudice indiano Radhabinod Pal, rappresentano il «fallimento del processo nell’offrire nient’altro che l’opportunità per i vincitori di vendicarsi dei vinti».

Fonte immagine in evidenza: Wikipedia 

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