L’imperialismo giapponese in Asia e nel Pacifico

Imperialismo giapponese

Con l’arrivo del commodoro Perry nel 1853, il Giappone riaprì forzatamente i propri confini dopo oltre due secoli di isolamento, un periodo al quale gli storici si riferiscono con il termine “sakoku” (letteralmente “paese blindato”). Nel giro di circa mezzo secolo, il paese passò da essere uno stato pseudo-feudale molto arretrato tecnologicamente, se paragonato alle potenze industriali occidentali, ad una nazione industrializzata e forte sia economicamente che sotto il punto di vista politico militare. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, infatti, il Giappone registrò due importanti vittorie nella guerra contro la Cina (1894-95), paese che aveva per anni avuto un ruolo da protagonista in Asia orientale, e in quella contro l’impero russo (1904-5), in quella che fu la prima vittoria di una potenza asiatica contro una occidentale. Furono queste le prime avvisaglie di quello che, successivamente, sarà l’imperialismo giapponese in Asia e nel Pacifico.

Le prime fasi dell’imperialismo giapponese

Gli sconvolgimenti politici causati dalla riapertura del paese portarono alla restaurazione del potere imperiale nel 1868 da parte dell’imperatore Mutsuhito, appoggiato dagli han (domini) di Satsuma e Chōshū, dopo oltre duecentocinquanta anni di dominio da parte del clan Tokugawa, e dopo che il paese era stato governato de facto dal bakufu (letteralmente “governo della tenda”) sin dalla fine del XII secolo. Dopo aver provveduto ad eliminare il sistema han, che prevedeva l’organizzazione del paese in vari domini dipendenti dal governo centrale, il governo Meiji (nome dato al regno dell’imperatore Mutsuhito, 1868-1912) impegnò i propri sforzi in direzione della modernità, iniziando dalla cosiddetta missione Iwakura, con la quale vennero rivisti i trattati ineguali firmati dal governo Tokugawa con le potenze occidentali alla metà del secolo. Nel 1875 ci fu il primo tentativo di annettere Taiwan, che venne però restituito alla Cina sotto pagamento e conquistato definitivamente nel 1895, al termine della prima guerra sino-giapponese. Nel 1889 venne varata la costituzione Meiji, dove è riconosciuta la centralità del potere imperiale, ed il Giappone divenne ufficialmente una monarchia costituzionale; nel frattempo, crebbero le tensioni con l’impero russo, che sfociarono nel conflitto russo-giapponese del 1904, che si concluse l’anno dopo con la vittoria dell’impero nipponico, al quale vennero assegnate, con il trattato di Portsmouth, dei possedimenti in Cina e, soprattutto, il protettorato su Manciuria e Corea, che fu definitivamente annessa nel 1910. Dopo essersi schierato dalla parte della Triplice Intesa durante la Prima Guerra Mondiale, il Giappone ricevette, dopo la conferenza di Parigi del 1919, i possedimenti dello Shandong in Cina e varie isole nell’Oceano Pacifico. 

Il periodo totalitario e la Guerra del Pacifico

Dopo un periodo di relativa stabilità interna negli anni della cosiddetta Democrazia Taishō, corrispondente al periodo del regno dell’omonimo imperatore (1912-26), iniziarono a susseguirsi in Giappone una serie di avvenimenti che portarono alla Guerra del Pacifico, iniziata nel 1931 con l’incidente mancese e terminata in concomitanza con la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il 18 Settembre 1931 un reggimento dell’esercito giapponese di stanza in Manciuria tentò di far esplodere un binario della linea ferroviaria mancese nei pressi di Mukden, come pretesto per invadere la regione. Il paese era ormai sempre di più sotto il controllo dell’esercito, e sei mesi dopo venne proclamato lo stato fantoccio del Manchukuo, a capo del quale venne posto Pu Yi, ultimo imperatore della dinastia Qing. Negli anni successivi il Giappone uscì dalla Società delle Nazioni (1933) e ruppe il trattato navale di Washington (1934), firmato nel 1922 per prevenire un nuovo riarmo delle potenze mondiali. La situazione peggiorò significativamente nel 1937, quando venne nominato primo ministro Konoe Fumimaro, convinto nazionalista; poche settimane dopo la sua nomina si verificò l’incidente del ponte di Marco Polo, che diede inizio alla seconda guerra sino-giapponese, durante la quale l’esercito nazionalista di Chiang Kai-Shek e quello comunista di Mao Tse-tung si unirono momentaneamente per contrastare le forze nemiche. È in questa fase che si consuma uno degli episodi più cruenti ed ingiustificati dell’imperialismo giapponese; il 13 Dicembre 1937 i giapponesi entrarono a Nanchino, in quel momento capitale della repubblica cinese, e in poco più di un mese sterminarono più di trecentomila persone tra militari e civili, compiendo svariate barbarie nei confronti della popolazione locale, compresi stupri e torture. L’episodio è ancora oggi oggetto di grande dibattito internazionale, anche perché il Giappone non sempre si è assunto le proprie responsabilità, e vi sono anche state personalità politiche che hanno adottato posizioni negazioniste nei confronti dell’accaduto. Sempre nel 1938, Konoe annunciò il progetto, iniziato poi nel 1940, della Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale, secondo il quale il Giappone avrebbe assunto il ruolo di “padre” nei confronti degli altri paesi del continente, per aiutarli a crescere e a prosperare, a differenza di quello che avevano fatti i paesi occidentali con il loro precedente colonialismo; in realtà il Giappone non adottò affatto un comportamento diverso dalle altre potenze coloniali, ma si servì di questi paesi per importare forzatamente materie prime e forza lavoro. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale, dopo aver firmato il patto tripartito con Italia e Germania, il Giappone invase Indocina (1940), Tailandia, Hong Kong (1941), Birmania, Singapore e Filippine (1942) e riportò inizialmente varie vittorie contro gli Stati Uniti, ma ben presto gli USA avrebbero ribaltato la situazione, portando il Giappone alla definitiva capitolazione dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki nell’Agosto del 1945, con la conseguente resa del paese e l’occupazione americana, che sarebbe durata fino al 1952. Il Giappone si avviò quindi verso un processo di democratizzazione, anche questo imposto dall’alto, e dovette abbandonare i propri sogni imperialistici.

Le conseguenze dell’imperialismo giapponese in Asia

A causa dell’imperialismo giapponese di inizio secolo, i rapporti tra l’arcipelago e gli altri paesi asiatici sono stati tutt’altro che idilliaci nei restanti anni del Novecento, ed anche oggi la situazione rimane talvolta tesa. Come già anticipato, alcuni dei governi che si sono succeduti in Giappone negli anni hanno assunto atteggiamenti controversi, come il rituale della visita, anche da parte dei primi ministri, al santuario Yasukuni, dedicato ai soldati ed in generale alle persone morte combattendo al servizio dell’imperatore, inclusi vari criminali di guerra. Queste visite hanno suscitato l’indignazione da parte di paesi come Cina e Corea, particolarmente sensibili al tema a causa di episodi come il già citato massacro di Nanchino o la questione delle comfort women coreane, donne costrette a prostituirsi per il piacere dei soldati giapponesi. Anche in patria gli atteggiamenti irresponsabili dei vari governi hanno prodotto diverse critiche da parte della popolazione e della classe intellettuale, che ha richiesto a gran voce le scuse e l’ammissione delle colpe del Giappone durante quegli anni. È molto probabile che il tipo di rapporto che il Giappone intratterrà con gli altri paesi asiatici dipenderà dall’atteggiamento dei governi futuri, se saranno capaci di chiedere scusa per le azioni commesse dal paese negli anni dell’imperialismo o se continueranno sulla linea del silenzio.

Fonte dell’immagine: Pixabay

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