La Parlesia: il linguaggio segreto dei posteggiatori napoletani

Cos’è la Parlesia, il linguaggio segreto dei posteggiatori napoletani

La tradizione musicale partenopea è, certamente, una delle più ricche e prestigiose. Ma sapevate che i posteggiatori avevano un linguaggio in codice? Cos’è la Parlesia?

A Napoli la musica è un punto fermo, si vive e si respira in giro per tutta la città.
A cavallo tra due secoli, l’Ottocento e il Novecento, la canzone partenopea con i suoi dolci versi e sinuose melodie fa il giro del mondo. Nella belle époque napoletana cominciano a farsi spazio i così chiamati café-chantant, ovvero tutti quei locali in cui, tra una bevanda e l’altra, si poteva assistere ad esibizioni di comici, musicisti e sciantose. Tra i tanti bar attivi all’epoca spiccavano innanzitutto il Salone Margherita nella Galleria Umberto I (il primo café-chantant d’Italia) e il bar Gambrinus, entrambi assiduamente frequentati dai posteggiatori.

Chi sono i posteggiatori? Sono tutti quei musicisti che, girovagando, esprimevano la propria arte in giro per i locali pubblici, per l’appunto. Come dei veri e propri maestri di strada, che utilizzavano il linguaggio in codice della Parlesia.
I temi dei posteggiatori erano i sentimenti, le parole e la vita dei ceti popolari, oppure tutti quegli eventi che coinvolgevano l’intera cittadinanza.
All’epoca, i posteggiatori e i musicanti in generale erano considerati un gruppo di cui diffidare, erano visti come gente pericolosa da cui stare lontani, a causa della loro vita nomade, simile a quella di briganti e malavitosi.

Cos’è la Parlesia?
Proprio per distinguersi da questo ambiente ostile, i posteggiatori cominciarono ad utilizzare un linguaggio in codice, la Parlesia, il mezzo di identificazione per tutti coloro che provenivano dallo stesso ceto sociale. Una lingua sconosciuta utilizzata per non farsi capire da chi era estraneo al loro ambiente.

La Parlesia non è una lingua difficile, non presenta neologismi e anzi, adotta molti vocaboli provenienti dalla lingua napoletana cambiandone il significato. A volte il significato cambia anche a seconda della pronuncia, ma le regole fonetiche sono sempre le stesse: rimangono invariate rispetto al napoletano comune.
Il vocabolario della Parlesia non è molto ricco, infatti consiste in pochi sostantivi e verbi necessari alla comunicazione tra persone dello stesso gruppo, così da parlare dinanzi a qualcuno senza essere compresi. Proprio come se si stesse parlando in una lingua straniera.

Luciano De Crescenzo all’interno del suo libro Tale e quale racconta dell’esistenza di questo gergo, solitamente utilizzato da teatranti e musicisti, prendendo come esempio proprio la parola ‘o tale e quale che dalla Parlesia si tradurrebbe come lo specchio.
Altri esempi di vocaboli possono essere bane (soldi), jammone (uomo di potere), cummara (chitarra) e lasagne (portafogli).

Anche Pino Daniele fa ampio uso di Parlesia in alcune canzoni, come ad esempio in Tarumbò proveniente dall’album Bella ‘mbriana.
Ed è proprio grazie ad artisti del calibro di Pino Daniele, James Senese, Enzo Avitabile, Tullio De Piscopo se la Parlesia giunge fino ai giorni nostri, ormai non più come mezzo per riconoscersi in un gruppo e distinguersi da un ambiente ostile, bensì come simbolo di Napoli e della sua cultura. Grazie alle loro canzoni di protesta, e non solo alle dolci melodie della Belle époque, a partire dagli anni Settanta del Novecento i grandi della musica partenopea fecero in modo che la Parlesia ottenesse un ruolo di spicco.

Fonte immagine in evidenza: Wikipedia 

A proposito di Ottavia Piccolo

Sono una studentessa dell'Università L'Orientale di Napoli. Appassionata di lingue straniere, amo soprattutto conoscere nuove culture, osservare e... scrivere! Fondo la mia vita sull'arte: la musica e la fotografia in cima alla lista!

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