E voi, come vi rivolgete a chi non conoscete? È risaputo che in italiano ci sono distinzioni tra lingua formale e lingua informale: esiste la seconda persona “tu”, per i contesti informali, e la terza persona “Lei”, per i contesti più formali. Oltre a questo, ci sono formule di cortesia, come “grazie”, “gentilmente”, che impreziosiscono il discorso di più o meno formalità. L’intonazione fa il suo lavoro, la gestualità anche.
In giapponese, però, è tutta un’altra storia: tra lingua formale e informale vi è un abisso, ben più profondo di quello che c’è tra le due modalità di comunicazione in italiano.
Questo articolo non vuole essere una guida esaustiva delle variazioni linguistiche che ci sono tra lingua formale e informale, e non serve un alto livello di giapponese per comprenderla. L’obiettivo è quello di creare un chiaro quadro complessivo sul funzionamento del complesso sistema di formalità in giapponese.
La forma gentile MASU e colloquiale RU
Iniziamo con il capire che in giapponese ci sono molti gradi di formalità; andremo a poco a poco a snocciolarne gli strati. Nella lingua formale giapponese la differenza è innanzitutto grammaticale: esistono desinenze grammaticali (la desinenza è l’elemento morfologico che si aggiunge alla radice di un sostantivo o di un verbo) per esprimersi in maniera gentile e distante e, al contrario, esistono desinenze grammaticali per esprimersi in maniera intima e familiare.
Questo primo grado di distinzione è molto importante: è in generale il primo riscontro che si ha con la lingua giapponese.
La differenza è riconoscibile in due desinenze verbali: la forma ます MASU, per il linguaggio gentile, e la forma る RU, per il linguaggio colloquiale. Si usa l’una o l’altra in base al nostro interlocutore, cioè colui a cui ci rivolgiamo. La forma RU è anche detta forma piana, quella che troviamo nel dizionario, quando consultiamo un verbo.
Esempi:
a) 東京に行きます。Tokyo ni ikimasu. trad. “Vado a Tokyo”
b) 東京に行く。Tokyo ni iku. trad. “Vado a Tokyo”
Notate qualcosa di simile? Come si può notare, il verbo “andare” (in giapponese IKU), che in giapponese si pone sempre alla fine della frase, è lo stesso nella parte iniziale ma si modifica nella parte finale, cioè la desinenza.
Il significato della frase dell’esempio A e B (“vado a Tokyo”) è infatti il medesimo, con l’unica differenza di un linguaggio gentile nel primo esempio e un linguaggio colloquiale (forma piana) nel secondo.
Usiamo i verbi coniugati in MASU in questi casi:
• Parlando con persone più grandi di noi
• Parlando con persone che non sono nostri amici e parenti
Usiamo i verbi coniugati in RU in questi casi:
• Parlando con nostri amici o persone più giovani e inesperte di noi
• Parlando da solo o facendo ponderazioni
Se queste differenze sembrano già notevoli, ancora non siamo entrati nel cuore della formalità giapponese. La forma MASU e RU dei verbi indica un grado di formalità, ma non ci danno informazioni sul referente, cioè il soggetto a cui ci stiamo riferendo. Per questo, esistono altre forme peculiari.
La lingua formale onorifica
È qua che la lingua giapponese diventa più intricata. Quando il nostro referente è qualcuno a cui dovremmo portare rispetto (es. quando voglio dire qualcosa che ha fatto il nostro capo ufficio), oppure qualcuno che appartiene a un diverso circolo lavorativo o aziendale, entra in gioco un altro grado di formalità da usare: la forma onorifica. Questa distinzione, che può essere a volte anche personale, ha a che fare con i concetti tipicamente giapponesi di soto (trad. “fuori”), ciò che è esterno a me, e uchi (trad. “la propria casa”), ciò che è vicino e familiare a me.
La forma onorifica, in giapponese 尊敬語 sonkeigo, si indica con modifiche sostanziali dei verbi giapponesi. Non sono più semplici desinenze, il verbo cambia del tutto. È come se per utilizzare il verbo “andare”, riferito a qualcuno che appartiene a uno status sociale alto o qualcuno esterno a noi, si dovesse utilizzare un certo verbo, ma riferito a qualcuno del nostro stesso circolo (un amico, un dipendente della nostra azienda etc.) se ne dovesse utilizzare un altro.
Qui ci sono alcuni esempi di conversione da verbo non onorifico a verbo onorifico:
taberu 食べる “mangiare” → meshiagaru 召し上がる “mangiare” (riferito a un superiore)
iu 言う “dire” → ossharu おっしゃる “dire” (riferito a un superiore)
Come è possibile vedere, la forma verbale è del tutto diversa, ma il significato è lo stesso. Inoltre, questa forma implica che si stia parlando di un proprio superiore anche quando egli non è presente con noi. Questo è l’elemento affascinante della formalità giapponese.
La lingua formale umile
Esistono forme peculiare di verbi (e non solo) anche quando si parla di noi stessi? La risposta è affermativa. Sebbene in giapponese i verbi non abbiano una coniugazione secondo la persona (ad esempio, io mangio, tu mangi, egli mangia etc.), quando si parla di noi stessi e dei nostri familiari, parenti o colleghi è opportuno usare, in contesti molto formali, la forma umile. In giapponese, 謙譲語 kenjougo.
Vediamo lo stesso esempio di prima trasformato nella forma umile, invece che in forma onorifica.
Taberu 食べる “mangiare”・nomu 飲む “bere” → itadaku 頂く “mangiare/bere” (riferito a noi stessi o ai nostri familiari)
Iu 言う “dire” → mousu 申す “dire” (riferito a noi stessi o i nostri familiari)
È per questo che prima di mangiare i giapponesi dicono la famosa frase «itadakimasu!» : significa letteralmente “sto umilmente ricevendo il pasto (e mostro gratitudine)”.
Combinare le desinenze gentili e non gentili con le forme umili e onorifiche
Ora che sappiamo che in giapponese ci sono desinenze gentili e non gentili e che i verbi (e non solo) si modificano del tutto se usati per un referente che ci è familiare o a un referente che ci è esterno, sorge spontanea la domanda: come possiamo dunque combinare queste due forme?
Possiamo trovare la risposta ponendoci due semplici interrogativi.
La prima domanda deve essere: di chi stiamo parlando? Se stiamo parlando in maniera formale di qualcuno che non conosciamo e che non è un nostro amico o un nostro collega di lavoro, dobbiamo usare la lingua formale onorifica. Se stiamo parlando di qualcuno appartenente al nostro uchi dobbiamo utilizzare la forma umile.
Ora che è chiaro quale registro usare, basta porci come seconda domanda: con chi stiamo parlando, ora? Ricordate che la forma MASU si usa con i conoscenti o le persone più grandi di noi e, allo stesso modo, la forma piana RU si usa con chi è nostro amico o più giovane di noi? Se seguiamo questa regola generale, ora sappiamo che dobbiamo usare la prima se stiamo parlando con un superiore o uno sconosciuto, e la seconda se stiamo parlando con un nostro amico, collega o familiare.
Ovviamente, in giapponese non sono solo i verbi a cambiare drasticamente con il passaggio da lingua informale a linguaggio formale (onorifico e umile), ma comprendere questi ultimi è il fulcro da cui è possibile decostruire l’intero sistema di formalità giapponese, per nulla intuitivo per noi occidentali.
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