Poesie di Gabriele D’Annunzio, le 5 più belle

Poesie di Gabriele D’Annunzio, le 5 più belle

Poesie di Gabriele D’Annunzio, le 5 più belle (secondo noi)

Il decadentista ed esteta Gabriele D’Annunzio (1863-1938) è stato uno scrittore (scopri le sue opere in prosa), poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano. Per la sua poesia profetica fu soprannominato “il Vate” e “l’Immaginifico”, influenzando il successivo periodo del dannunzianesimo. Ecco le 5 poesie più belle di Gabriele D’Annunzio!

Poesie di Gabriele D’Annunzio: La pioggia nel pineto

È una delle poesie Gabriele D’Annunzio più famose. “La pioggia nel Pineto” è una poesia che cattura l’essenza del contatto tra l’uomo e la natura, un tema caro a lui caro e centrale nel suo panismo. Questo approccio letterario si fonda sull’idea che l’uomo possa raggiungere un’esperienza estetica totale attraverso l’immersione nei paesaggi naturali, fino a sentirsi un tutt’uno con essi.

La poesia si apre con un invito al silenzio, un silenzio che non è assenza di suono, ma piuttosto una presenza di suoni più autentici e meno umani: il fruscio delle gocce di pioggia, il sussurro delle foglie, il canto lontano del mare. Il poeta utilizza un linguaggio ricco di immagini sensoriali che stimola tutti i sensi, non solo l’udito e la vista, ma anche l’olfatto, il tatto e il gusto.

L’uso di allitterazioni, assonanze e onomatopee rende il testo un vero e proprio canto della natura, dove ogni elemento – pioggia, pini, tamerici, mirti, ginestre, ginepri – diventa protagonista di un concerto armonioso. La pioggia, in particolare, assume un ruolo centrale, quasi divino, diventando il medium attraverso il quale l’uomo e la natura comunicano e si fondono.

In questa poesia si Gabriele D’Annunzio si esplorano anche il tema dell’amore, rappresentato dalla figura di Ermione, destinataria delle parole del poeta. L’amore per Ermione si intreccia con l’amore per la natura, creando un parallelo tra la passione amorosa e l’esperienza estatica del paesaggio. La pioggia diventa così un simbolo di purificazione e rinnovamento, un elemento che lava via le tracce del mondo umano e permette all’individuo di rinascere in una dimensione più autentica e selvaggia.

“La pioggia nel Pineto” non è solo una delle poesie di Gabriele D’Annunzio più note, ma un’esperienza sensoriale completa che invita il lettore a perdere se stesso nei ritmi e nei suoni della natura, a scoprire un mondo dove l’io si dissolve e si espande, diventando parte di un tutto più grande e più vero. È un inno alla vita, alla bellezza e alla potenza rigeneratrice della natura, che continua a ispirare e a commuovere lettori di tutte le epoche.

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell’aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immensi
noi siam nello spirito
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, Ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta: ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Poesie di Gabriele D’Annunzio: La pioggia nel Pineto (seconda parte)

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
( e il verde vigor rude
ci allaccia i melleoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

 

Un ricordo

Un ricordo, una delle poesie di Gabriele D’Annunzio più belle, parla di un ricordo del poeta, un ricordo vago eppure infinito.

“Un ricordo”, inclusa nella raccolta “Canto novo” del 1896, è uno dei vertici più alti della lirica dannunziana e un vero capolavoro della poesia italiana. In questa breve ma densissima composizione, D’Annunzio riesce a condensare con estrema potenza evocativa l’inafferrabile essenza di un ricordo d’amore sfuggente eppure indelebile.

Fin dalle prime battute, il poeta immerge il lettore in un’atmosfera sospesa e rarefatta, costruita su litoti e sinestezie ardite: “Non ricordo quel giorno che passammo in fuga / sul vasto mare grigio da tutti i lidi dispersi”. Il ricordo a cui allude rimane volutamente indefinito, quasi un miraggio inafferrabile trattenuto a stento dalla memoria.

Eppure dal vago sfondo iniziale prendono lentamente forma dettagli vividi e sensualissimi, quasi il ricordo riacquistasse vita e concretezza per incanto. Il poeta ci conduce nel vortice delle sensazioni fisiche provate in quell’istante remoto: i baci struggenti, l’azzurro profondo del cielo, il buio ombrato degli occhi dell’amata. È un crescendo di suggestioni che culmina nella celebre terzina finale: “Perché rinnovi quel giorno quel malè, / cuore che l’ami ancor mèmore e triste, / e quella notte azzurra e quell’estasi?

Io non sapea qual fosse il mio malore
né dove andassi. Era uno strano giorno.
Oh, il giorno tanto pallido era in torno,
pallido tanto che facea stupore.
Non mi sovviene che di uno stupore
immenso che quella pianura in torno
mi facea, cosí pallida in quel giorno,
e muta, e ignota come il mio malore.
Non mi sovviene che d’un infinito
silenzio, dove un palpitare solo,
debole, oh tanto debole, si udiva.
Poi, veramente, nulla piú si udiva.
D’altro non mi sovviene. Eravi un solo
essere, un solo; e il resto era infinito.

 

Poesie di Gabriele D’Annunzio: Tutto fu ambito

Tutto fu ambito, una delle poesie più belle di Gabriele D’Annunzio, è un inno alla completezza umana, che può fare sogni così intensi da sembrare realtà. Fa parte della raccolta “Alcione” pubblicata nel 1904, considerata una delle vette più alte della produzione poetica dannunziana. In questa lirica, il poeta riflette in modo profondo ed evocativo sul tema del desiderio e della brama che permea ogni aspetto dell’esistenza umana.

Fin dal titolo, il termine “ambito” (ardentemente desiderato) stabilisce il tono di fondo: una incessante ricerca di appagamento, una sete di vita mai pienamente colmata. D’Annunzio dipinge un affresco di immagini sensuali e paesaggi naturali lussureggianti per rappresentare l’esuberanza della natura e delle pulsioni vitali.

Eppure, questa celebrazione del desiderio terreno si tinge di malinconica consapevolezza di fronte al trascorrere inesorabile del tempo e all’ineluttabilità della fine. Il poeta sembra suggerire che il vero godimento risiede nell’abbracciare appieno e intensamente ogni attimo, ogni sensazione, prima che sfumino nell’oblio.

La ricchezza lessicale, le ardite sinestesie e le reminiscenze mitologiche tipiche dello stile dannunziano conferiscono una straordinaria musicalità ai versi, quasi a voler imprigionare l’essenza stessa del desiderio nel fluire della parola poetica.

Poesie di Gabriele D’Annunzio: Tutto fu ambito

Tutto fu ambito
e tutto fu tentato.
Quel che non fu fatto
io lo sognai;
e tanto era l’ardore
che il sogno eguagliò l’atto.

 

Voglio un amore doloroso

Voglio un amore doloroso, una delle poesie più belle di Gabriele D’Annunzio, inverte le nostre idee sull’amore e ci fa entrare nel mondo amoroso del poeta. 

Fin dal titolo programmatico “Voglio un amore doloroso”, D’Annunzio rivendica con toni quasi provocatori e sovversivi l’autenticità di un sentimento che trascende le mere convenzioni borghesi. Il vero amore non può essere semplice idillio, ma deve necessariamente contemplare anche la dimensione lacerante del tormento e del patimento.

Con un linguaggio febbrile e un ricco immaginario simbolico, il poeta dipinge l’amore come una forza primordiale e violenta, paragonabile a un’entità soprannaturale in grado di trasfigurare e redimere l’esistenza. La passione viene celebrata in tutta la sua intensità tragica e lacerata, quasi una ferita dalla quale sgorga la linfa vitale.

L’io lirico sembra quasi invocare un amore in grado di “ferire” e al contempo travolgere nell’estasi del piacere, abbracciando senza riserve l’indissolubile legame tra Eros e Thanatos che percorre tutta l’opera dannunziana.

Poesie di Gabriele D’Annunzio: Tutto fu ambito

Voglio un amore doloroso, lento,
che lento sia come una lenta morte,
e senza fine (voglio che più forte
sie della morte) e senza mutamento.
Voglio che senza tregua in un tormento
occulto sien le nostre anime assorte;
e un mare sia presso a le nostre porte,
solo, che pianga in un silenzio intento.
Voglio che sia la torre alta granito,
ed alta sia così che nel sereno
sembri attingere il grande astro polare.
Voglio un letto di porpora, e trovare
in quell’ombra giacendo su quel seno,
come in fondo a un sepolcro, l’Infinito.

 

Poesie di Gabriele D’Annunzio: Stringiti a me

Stringiti a me è una delle poesie più belle di Gabriele D’Annunzio. Il poeta celebra l’abbraccio e il desiderio di abbandonarsi al partner per trovare rifugio dai propri tormenti. Fa parte della raccolta “Canto novo” pubblicata nel 1896, un’opera fondamentale del periodo della maturità artistica di D’Annunzio. In questa poesia, l’autore esplora con estrema sensualità e coinvolgimento emotivo il tema dell’amore passionale, declinandolo attraverso un linguaggio ricco di riferimenti naturalistici e mitologici tipici del suo stile.

L’invito iniziale “Stringiti a me” rivolto alla donna amata stabilisce fin da subito un’atmosfera di intensa intimità fisica ed emotiva. Il poeta sembra quasi voler fondersi con l’amata, celebrando la totalità dell’unione carnale come sublimazione dell’amore terreno. Tuttavia, questo slancio vitalistico è anche pervaso da un sottile velo di malinconia e consapevolezza della caducità di ogni cosa…

Stringiti a me,
abbandonati a me,
sicura.

Io non ti mancherò
e tu non mi mancherai.

Troveremo,
troveremo la verità segreta
su cui il nostro amore
potrà riposare per sempre,
immutabile.

Non ti chiudere a me,
non soffrire sola,
non nascondermi il tuo tormento!

Parlami,
quando il cuore
ti si gonfia di pena.

Lasciami sperare
che io potrei consolarti.

Nulla sia taciuto fra noi
e nulla sia celato.

Oso ricordarti un patto
che tu medesima hai posto.

Parlami
e ti risponderò
sempre senza mentire.

Lascia che io ti aiuti,
poiché da te
mi viene tanto bene!

Fonte immagine per l’articolo sulle poesie di Gabriele D’Annunzio: Pixabay

 

A proposito di Rosalba Rea

Sono Rosalba, amo leggere e imparare cose nuove. Scrivere poesie è sempre stata la mia passione più grande.

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