Sylvia Plath, 5 delle migliori poesie

Sylvia Plath

Sylvia Plath è tra le poetesse e scrittrici americane più canoniche, esponente della poesia confessionale e vincitrice del premio Pulitzer (assegnatole postumo). La vita personale di Plath è famosa quanto le sue poesie: il suo rapporto complicato con l’essere donna e la maternità, la depressione che l’ha accompagnata per tutta la vita, il suo matrimonio difficile con il famoso poeta Ted Hughes e la morte avvenuta per suicidio a 30 anni sono tutte storie note e anche trasposte al cinema (con la disapprovazione dei parenti in vita di Plath, in particolare della figlia Frieda Hughes che dedicò all’argomento la poesia “My Mother“).

Quella di Sylvia Plath è una voce senza tempo, dotata di una forza evocativa senza rivali e che tratta di numerosi argomenti quali l’amore, la morte, la donna, la guerra e molti altri. Ecco 5 delle sue migliori poesie.

5 poesie di Sylvia Plath

5) Soliloquio della Solipsista/Soliloquy Of The Solipsist

 Io?
Io cammino sola;
la strada a mezzanotte
si srotola dai miei piedi;
quando chiudo gli occhi
queste case sognanti non sono più;
è per un mio capriccio
che la celeste cipolla della luna sta sospesa
sopra i tetti.

Io
se mi allontano faccio rimpicciolire
le case e riduco gli alberi;
al laccio del mio sguardo
ballonzola la gente-marionetta
che, ignara di scemare,
ride, si bacia, si ubriaca,
e non sa che solo batto ciglio
è morta.

Io,
se di umore lieto,
do all’erba il suo verde,
blasono il cielo d’azzurro e al sole
dono l’oro;
ma nei miei umori più invernali, detengo
il potere assoluto
di boicottare il colore e di proibire ai fiori
l’esistenza.

Io
so che tu appari
vivido al mio fianco,
e neghi d’esser nato dalla mia testa,
e sostieni che il fuoco
dell’amore che senti prova vera la carne,
ma è lampante,
mio caro, che tutta la tua bellezza e l’ingegno sono un dono mio.

Per Sylvia Plath l’io, l’interiorità è tutto: l’io delle voci narranti della poetessa è spesso opprimente e un peso davanti al quale non si può fuggire, in altri casi, invece, quest’interiorità che divora tutto ciò che la circonda viene mostrata come vera creatrice della realtà e del mondo che si piega alla sua volontà.

4) I manichini di Monaco/ The Munich Mannequins

La perfezione è terribile, non può avere figli.
Fredda come respiro di neve, occlude il grembo

dove arbusti di tasso spuntano come idre,
l’albero della vita e l’albero della vita

scioglienti le loro lune, mese per mese, invano.
Flusso di sangue è flusso

d’amore, sacrificio assoluto.
Vuol dire: non altri idoli che me,

me e te.
Così, sulfureamente amabili, nei loro sorrisi

questi manichini s’affacciano stanotte
a Monaco, obitorio che sta fra Roma e Parigi,

nudi e spogli nelle loro pellicce,
lecca-lecca all’arancio su stecchi d’argento,

insopportabili, senza sentimento.
Sgocciola giù la neve i suoi frammenti di buio,

non c’è nessuno. Negli alberghi
mani apriranno porte, deporranno

scarpe da lucidare in cui domani
enormi diti di piedi entreranno.

Oh quale aria di casa queste vetrine,
biancheria da neonati, dolciumi guarniti di verde,

i grevi tedeschi assopiti nel loro Stolz senza fondo.
e i neri telefoni ai ganci

luccicanti
luccicanti e inghiottenti

insistenti voci. Non ha voce la neve.

La perfezione dei manichini o delle modelle (a cui probabilmente si riferisce la poetessa) è una calunnia dell’essere umano (principalmente della donna, in questo caso) a cui viene negata la vita e il ciclo vitale in quanto il manichino non è vivo e a sua volta non può generare figli mentre le modelle non possono avere figli senza alterare la “perfezione” del proprio corpo. Alla domanda “Di cosa è priva la perfezione?” la risposta di Sylvia Plath sembra essere “L’esperienza, la crescita, la trasformazione, la vita”.

3) Elettra sul vialetto delle azalee/ Electra on Azalea Path

Il giorno che moristi andai nella terra,
nell’ibernacolo senza luce
dove le api, a strisce nere e oro, dormono finché cessa la bufera
come pietre ieratiche, e il terreno è duro.
Quel letargo andò bene per vent’anni –
come se tu non ci fossi mai stato, come se io fossi
venuta al mondo, dal ventre di mia madre, ad opera di un dio:
sul suo letto largo c’era la macchia del divino.
Non avevo nulla a che vedere con la colpa o altro
quando mi raggomitolavo sotto il cuore di mia madre.

Piccola come una bambola nel mio vestitino d’innocenza
me ne stavo sdraiata a sognare la tua epopea, immagine per immagine.
Non uno che morisse o sfiorisse su quella scena.
Tutto avveniva in una bianchezza durevole.
Il giorno che mi svegliai, mi svegliai a Churchyard Hill.
Trovai il tuo nome, le tue ossa e tutto
nelle liste di una necropoli gremita,
la tua pietra maculata di sghimbescio presso una ringhiera.

In questo ricovero, in questo ospizio, dove i morti
si ammucchiano piede a piede, testa a testa, non un fiore
a rompere il terreno. Questo è il vialetto delle azalee.
Un campo di bardana si apre a sud.
Sopra di te sei piedi di sassolini gialli.
La salvia rossa non si muove
nella vaschetta di sempreverdi di plastica posti
davanti alla lapide vicina alla tua, e neppure marcisce,
per quanto le piogge stingano un colore di sangue:
i petali finti gocciolano, gocciolano rosso.

C’è un altro rosso a incomodarmi:
il giorno che la tua vela rilasciata bevve il respiro di mia sorella
il mare piatto si fece di porpora come l’atroce panno
che mia madre aprì al tuo ultimo ritorno.
Prendo a nolo i paramenti di una tragedia antica.
La verità è che in una fine d’ottobre, al mio primo vagito,
uno scorpione si punse la testa, brutto segno;
mia madre ti sognò riverso nel mare.

Gli attori di pietra sostano, si riposano per riprender fiato.
Ho dato tutto il mio amore, e tu sei morto.
Fu la cancrena a mangiarti fino all’osso
mi disse la mamma; moristi come uno qualunque.
Come invecchierò con questo pensiero?
Sono lo spettro di un suicida senza onore,
il mio rasoio azzurro mi s’arrugginisce in gola.
Oh, perdona colei che batte alla tua porta a
domandarti perdono, padre – la tua cagnetta fedele, figlia e amica.
È stato il mio amore a dare la morte a entrambi.

Una delle prime poesie di Sylvia Plath ispirata al padre, lo stile è a metà tra elegia e poesia confessionale e manca della rabbia che caratterizza la più famosa poesia “Daddy”. La voce narrante vede il padre come una figura divina, la cui morte è al di fuori del piano della realtà e può essere solo associata ad un mito quale l’Orestea e la morte di Agamennone. Questa visione del padre e della sua “epopea” viene poi infranta dalla realtà che il padre è morto come un uomo qualsiasi, qualcosa di impossibile da accettare per la voce narrante che è ormai completamente identificata in Elettra la cui vita dopo la morte del padre è una non-vita.

2) Tulipani/ Tulips

I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno.
Guarda com’è tutto bianco, quieto, coperto di neve.
Sto imparando la pace, distesa quietamente, sola,
come la luce posa su queste pareti bianche, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; non ho nulla a che fare con le esplosioni.
Ho consegnato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere,
la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.

I vividi tulipani mangiano il mio ossigeno.

Prima del loro arrivo l’aria era calma,
andava e veniva, un respiro dopo l’altro, senza dar fastidio.
Poi i tulipani l’hanno riempita come un frastuono.
Ora s’impiglia e vortica intorno a loro così come un fiume
s’impiglia e vortica intorno a un motore affondato rosso di ruggine.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
di vagare e riposare senza farsi coinvolgere.

Anche le pareti sembrano riscaldarsi.
I tulipani dovrebbero essere in gabbia come animali pericolosi,
si aprono come la bocca di un grande felino africano,
e io mi accorgo del mio cuore, che apre e chiude
la sua coppa di fiori rossi per l’amore che mi porta.
L’acqua che sento sulla lingua è calda e salata, come il mare,
e viene da un Paese lontano quanto la salute.

Tulips è una delle poesie più famose di Sylvia Plath ed è ispirata ad un ricovero ospedaliero della poetessa e il mazzo di tulipani che le viene regalato in occasione. Nell’ambiente sterile e privo di colori dell’ospedale l’io della voce narrante sembra svanire dando spazio ad una quiete mai provata prima. In questo scenario statico i tulipani diventano una presenza ingombrante e fastidiosa: i tulipani rappresentano la vita alla quale la voce narrante può ritornare una volta vinto il richiamo del vuoto, la scelta intrapresa dalla poetessa è quella tra la vita e la morte. La vita prevale ma la salute rimane lontana.

1) Papà/Daddy

Non servi, non servi più,
O nera scarpa, tu
In cui trent’anni ho vissuto
Come un piede, grama e bianca,
Trattenendo fiato e starnuto.

Papà, ammazzarti avrei dovuto.
Ma sei morto prima che io
Ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio,
Statua orrenda dal grigio alluce
Grosso come una foca di Frisco

Mi s’incollava a un filo spinato.
Ich, ich, ich, ich,
Non riuscivo a dir di più di così.
Per me ogni tedesco era te.
E quell’idioma osceno

Non un Dio ma svastica nera
Che nessun cielo ci trapela.
Ogni donna adora un fascista,
La scarpa in faccia, il brutale
Cuore di un bruto a te uguale

Tu stai alla lavagna, papà,
Nella foto che ho di te,
Biforcuto nel mento anziché
Nel piede, ma diavolo sempre,
Sempre uomo nero che

Con un morso il cuore mi fende.
Avevo dieci anni che seppellirono te.
A venti cercai di morire
E tornare, tornare a te.
Anche le ossa mi potevano servire.

Ma mi tirarono via dal sacco,
Mi rincollarono i pezzetti.
E il da farsi così io seppi.
Fabbricai un modello di te,
Uomo in nero dall’aria Meinkampf,

E con il gusto di torchiare.
E io che dicevo lo voglio, lo voglio.
Papà, eccomi al finale.
Tagliati i fili del nero telefono
Le voci più non ci possono miagolare.

Se ho ucciso un uomo, due ne ho uccisi –
Il vampiro che diceva essere te
E un anno il mio sangue bevé,
Anzi sette, se tu
Vuoi saperlo. Papà, puoi star giù.

Nel tuo cuore c’è un palo conficcato.
Mai i paesani ti hanno amato.
Ballano e pestano su di te.
Che eri tu l’hanno sempre capito.
Papà, bastardo, ho finito.

La poesia di Sylvia Plath più famosa e la più controversa a causa del discutibile paragone che la poetessa adopera tra il padre e un nazista e l’autoidentificazione con una vittima della Shoah. La figura paterna al centro della poesia non è unicamente basata sul padre della poetessa ma è un supremo emblema della figura autoritaria, troppo grande per poter essere identificata (“alluce grosso come una foca di Frisco“), che attua una distruzione totale dell’individuo il quale non è neppure in grado di parlare e affermare la propria esistenza. L’uccisione metaforica del padre può sembrare catartica, una vendetta ben riuscita, tuttavia, piuttosto che “aver finito” con il padre (“I’m through“) la voce narrante sembra parlare di se stessa “ho finito“. Parlare di questa relazione sembra aver solo intensificato il dolore così che attraverso la poesia confessionale, che offre in teoria l’opportunità di alleviare le proprie sofferenze attraverso l’arte, non abbia fatto altro che spingere Sylvia Plath verso un punto di non ritorno tale che davanti a sé sembrava scorgere nulla tranne che un precipizio.

 

Fonte immagine: Wikipedia

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