La legge non ammette serafini al Teatro Bolivar
La legge non ammette serafini è un testo scritto e diretto da Salvatore Testa per un progetto del T.S.O. (Teatro Sotto Osservazione), con l’interpretazione di Giulia Piscitelli, Salvatore Testa, Pasquale Aprile e Marica Nicolai. Lo spettacolo è nato durante il primo lockdown, dovuto al covid19, durante i corsi di drammaturgia dedicati agli allievi dell’Accademia del Teatro di Napoli e finalmente ha potuto trovare uno spazio in cui prendere vita al Teatro Bolivar venerdì 25 novembre.
Una riflessione sulla solitudine
«Durante il primo lockdown dovuto al covid19, ho riflettuto molto sul senso di isolamento e di esclusione. Sono questi i temi portanti dell’opera che ho deciso di comunicare tenendomi lontano dalla mera cronaca o da qualsiasi riferimento alla pandemia. Difatti, il testo parla della solitudine dal punto di vista di quattro personaggi che vivono questa condizione in maniera pressoché perenne» con queste parole Salvatore Testa spiega lo spettacolo scritto e diretto da lui stesso, La legge non ammette serafini.
Traendo spunto da un fatto reale secondo cui spesso nella piazza di Pozzuoli si incontra un uomo di nome Serafino definito diverso, pazzo, La legge non ammette serafini coglie l’occasione per dare corpo a una riflessione sull’essere esclusi dalla società e dalle persone condizionate dal contesto culturale di quest’ultima, e dunque sulla solitudine che si impone. Non è un caso che il testo sia nato proprio nel contesto del primo lockdown, che ha costretto ciascuno di noi a interfacciarsi inevitabilmente con tali tematiche, a partire dalla solitudine forzata in cui ci si è ritrovati per causa di forza maggiore, chiusi nella propria quotidianità senza possibilità di uscita, fino ad arrivare a certe questioni sociali nelle quali si è assistito spesso a situazioni di esclusione.
La legge non ammette serafini, pertanto, riflette proprio sulle sfumature di cosa significhi essere escluso, forse per paura o per – non poi così banalmente – un retaggio culturale. Protagonisti della pièce, infatti, sono una serie di personaggi che ai nostri occhi appaiono esattamente come degli emarginati: un uomo appena uscito dal carcere e che per questo è condannato a vivere con un forte pregiudizio sulle spalle da parte della società in cui vive ma, innanzitutto, da parte di se stesso; una extracomunitaria in cerca probabilmente di una fortuna che non trova; una conduttrice di un programma radiofonico costretta a vivere l’apparenza dei riflettori senza che nessuno la guardi per chi è veramente; un uomo, Serafino, che gira con il suo scrigno sotto il braccio, come se fosse l’unico che effettivamente non rinuncia mai alla sua identità nonostante i giudizi perentori e carichi di veleno, e parla, sogna da solo, mentre la gente lo guarda come si guarderebbe un pazzo solo perché diverso da ciò che convenzionalmente viene reputato “normalità”. Sono tutti personaggi che, appunto, vivono una condizione di esclusione e affrontano la vita sotto l’imperativo della solitudine.
La legge non ammette serafini, dunque, sviluppa il tema della solitudine attraverso un meccanismo che non riguarda soltanto la scelta dei personaggi, delle loro parole e della storia che si articola da queste ultime, ma anche attraverso un congegno di rappresentazione scenica che si sviluppa in spazi esterni: per quei personaggi, protagonisti dello spettacolo, non c’è l’intimità né il calore di uno spazio interno, ma ci sono il freddo e la dispersione di spazi scenici all’aperto come a rimarcare la loro esclusione, la loro mancata integrazione.
Fonte immagine di copertina: Teatro Bolivar