L’Amleto (o il gioco del suo teatro), al TRAM: il gioco dei ruoli

Amleto o il gioco del suo teatro

L’Amleto (o il gioco del suo teatro) in scena al TRAM dal 3 febbraio al 13 febbraio porta in scena una rivisitazione dell’opera, giocando con lo scambio continuo dei ruoli dei tre attori sul palcoscenico

Da giovedì 3 febbraio a domenica 13 febbraio il teatro TRAM ospiterà il debutto nazionale dell’Amleto (o il Gioco del Suo Teatro), liberamente tratto dall’opera di William Shakespeare.

Il progetto è adattato e diretto da Giovanni Meola e vede in scena Solene Bresciani, Vincenzo Coppola e Sara Missaglia. L’assistente alla regia è Chiara Vitiello e i costumi di scena sono di Marina Mango.

Amleto, la frammentazione dell’io e la sua dissoluzione come varco ai disagi della contemporaneità

I tre attori che calcano le tavole del palcoscenico aspettano di essere personaggi non in cerca dell’autore, di pirandelliana memoria, ma facendo la spola in tutti i ruoli principali di cui l’opera di Shakespeare si compone, con cui il regista si diverte a muoverne i fili. il personaggio di Amleto esprime la sua tragedia personale fin da subito, riversando la sua amara verità sull’amico Orazio che è  presenza  assente, spettrale come suo padre morto avvelenato da suo zio ora re, Claudio. Orazio ascolta, ma è una presenza non visibile, da osservatore esterno che ricorda a tratti il professore della scena del caffè in “Questi fantasmi” di Eduardo De Filippo. Ma oltre a ciò sorge una domanda: nello spettacolo di Meola, quale attore interpreta il ruolo di Amleto? E chi quello di Gertrude e di Claudio, o quello di Polonio, Ofelia, Laerte e i due amici Rosencratz e Guildenstern? Rispondendo a questa domanda, è evidente che è scardinato il principio per cui l’attore incarna un unico ruolo, così come è scardinata l’idea di identità fissa, l’identità con cui l’autore gioca, in un frenetico cambio di vestigia come un gioco di trasformismo.

Lo spettacolo Amleto (o il gioco del suo teatro) è innanzitutto allegorico ed è capace di aprire continui varchi, se non squarci, sulla nostra realtà. Tra un cambio di scena e un altro, apparentemente simile, si può udire il continuo ronzio delle voci in una strada affollata di Manhattan e le identità che accrescono in modo esponenziale tra i continui contatti sociali della metropoli. Rivolgendo lo sguardo alla magia della sala, alle luci della ribalta, sono solo tre gli attori che scambiano continuamente i ruoli: Amleto è quasi sempre donna, ma Amleto spesso è anche Ofelia, e Ofelia è anche suo padre Polonio e così come uno dei falsi amici di Amleto. Amleto che ama Ofelia, ma in uno scatto d’ira la rifiuta, le intima di farsi monaca. Lo spettacolo infatti è una sintesi perfetta dell’opera in quanto a rendimento. La diegesi e i dialoghi seguono un criterio messo a punto per conferire tutta la dinamicità necessaria ad uno spettacolo senza centro, senza ruoli prefissati ed è il solo passaggio da un ruolo ad un altro a coincidere con la fine di una scena e l’inizio di un’altra. Quando la tragedia raggiunge l’acme e la catastrofe, lo spettatore, oltre che svuotato al pari di Amleto è anche volutamente disorientato e rivive in questo la frenesia del mondo contemporaneo, dove siamo tutto, ma anche nessuno, in cui la morte che preserviamo dentro è avvertita in noi anche per la mancanza di punti di riferimento, una morte che coincide con il vuoto, il nulla o la mancanza di stabilità di un mondo che sembra non avere più scopi, fini e quindi ruoli stabili da poter incarnare anche da un punto di vista sociale. Dunque, nella scena finale tra veleni e colpi di spada tutti i personaggi muoiono in un frenetico avvelenamento esistenziale. 

È l’esistenza, infatti, a balenare sul palco e a sgusciare tra una battuta e l’altra. L’essere che già come ci ricordava il sommo autore nella prima scena del terzo atto “To be or not to be, this is the problem” già voleva significare al suo tempo non solo azione e inettitudine, ma anche vita e morte; vitalità e precarietà come una condizione imprescindibile dell’essere umano che già si avvertiva decentrato, instabile nell’esistenza e in una condizione di profonda fragilità esistenziale. Ora assuefatti dall’epoca della tecnica, che concepisce l’uomo come un affare burocratico o un anonimo consumatore (figurarsi i valori dell’umanesimo!) ancora una volta il problema è il “non essere”. Ma qui compare anche l’uomo come frammentazione di mille maschere, costretto a sposare il più puro individualismo e  nichilismo, che consuma la propria identità velocemente e con frenesia come foglia riarse dalle fiamme, fino al punto di ammettere la falsità dell’io e la morte di esso, resosi conto della grande menzogna dell’identità. 

 Amleto, infine, muore, ma forse era già morto nella continua e nevrotica assenza di stabilità, di centralità, di ruolo scenico e quindi di riflesso nella instabilità esistenziale della modernità. Amleto  rappresenta  un po’ tutti noi nella nostra condizione più precaria: essere morti ancora prima di morire.

 

 

 

 

 

 

 

A proposito di Antonio Forgione

Antonio Forgione nasce in Irpinia, nella valle d'Ansanto decantata da Virgilio, selvaggia terra che confina con la Puglia. Dopo il diploma si trasferisce a Napoli e lì si laurea in Lettere Moderne alla Federico II. Attualmente frequenta la specialistica in Filologia Moderna e coniuga gli interessi letterari con la scrittura creativa, amata e coltivata fin dall'infanzia. In passato ha partecipato a svariati concorsi letterari della sua terra, ottenendo buoni risultati. Il rapporto col suo territorio gli ha permesso di sviluppare una certa sensibilità, che riversa nei suoi scritti. Ama la città di Napoli, sua patria adottiva nella quale persegue una solida formazione letteraria.

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