L’uomo dal fiore in bocca all’Oberon | Recensione

L'uomo dal fiore in bocca

L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello va in scena il 18 e il 19 maggio al teatro Oberon. La regia è di Adriano Fiorillo, con Adriano Fiorillo e Giulia Piscitelli.

Il teatro Oberon chiude la stagione con uno spettacolo dal sapore dolceamaro. Adriano Fiorillo (regista, attore e direttore artistico dell’Oberon) sceglie un testo non usuale dell’insigne drammaturgo nostrano, e lo rielabora in una forma del tutto originale, catturandone le immagini, riuscendo a coglierne tutto il potere visivo. L’uomo dal fiore in bocca di Adriano Fiorillo è una messinscena in cui il palcoscenico si confonde con lo schermo cinematografico, e il talento antico del teatro abbraccia la settima arte, rompendo gli schemi, rimescolando i piani espressivi.

La messinscena de L’uomo dal fiore in bocca

L’uomo dal fiore in bocca si gode lo spettacolo della sua dipartita gustando delle succose albicocche, mentre, dall’altro capo della scena, un pacifico avventore passeggia disinvolto e ignaro. Chi è vivo e chi è morto? Cosa immaginiamo e cosa vediamo?

L’uomo dal fiore in bocca, sin dall’apertura del sipario, accende il lume dell’immaginazione: Giulia Piscitelli (l’avventore) attraversa il palcoscenico da una parte all’altra, volteggiando e cambiando abito come un’abile trasformista. L’inizio dello spettacolo ha quel «gusto d’angoscia nella gola», quel peso svolazzante ed effimero di «vita ingorda»: si tratta di un fiore inafferrabile che tutti ci portiamo dentro, che il protagonista nasconde sotto il baffo.

Giulia Piscitelli è un passante distratto che porta a spasso il cane, un clochard, una donna di alta classe. L’attrice incarna le figure del passato, le uniche che riescono a rimanere vive dentro di noi e che, a distanza di tempo, si lasciano assaporare, specie da un uomo di scorcio, intento a succhiare la polpa di un’albicocca mentre attende la fine di ogni insulsa occupazione a cui la vita lo costringe.

L’uomo dal fiore in bocca comincia con una prima scena che somiglia a quella di un film contemporaneo. Lo spettacolo riesce a restituire la sostanza visiva di tutti quei personaggi che, per anni, nella mente di Pirandello, si sono presentati come fastidiose apparizioni passeggere, ma di consistenza porosa, nati per lo schermo.

Dopo aver visto figure aliene affollarsi sulla scena, inconsapevoli della morte, ecco che, chi la morte già l’ha in bocca, comincia a dare fiato ai pensieri per far uscire il suo malessere. La parola ritorna protagonista e, dopo un breve viaggio nel cinema del reale, si ritorna inchiodati sulla poltrona del teatro, dove il verbo trova il suo luogo naturale. L’uomo dal fiore in bocca siede su una seggiola – quella stessa che è condannata a non conoscere i mali di chi vi si posa – di fronte al pubblico, mentre, invece, di spalle vi è l’avventore che, per sua sventura, ha perduto per un solo minuto l’ultimo treno.

I due si intrattengono in una conversazione di circostanza riguardo la seccatura provocata dai capricci delle donne in villeggiatura. Quando il discorso pare che stia lì lì per trasformarsi in un coacervo di luoghi comuni, sugli atteggiamenti frivoli delle donne e sui loro futili bisogni, al punto che il pubblico femminile presente in sala comincia a storcere gli occhi – ecco che lo spettacolo prende una piega diversa, assolutamente inedita.

Ne L’uomo dal fiore in bocca, la scenografia, sapientemente costruita con inventiva e artigianato, offre l’opportunità di aprire una piccola vetrina sul fondo della scena, dalla quale diventa possibile sbirciare un giovane di negozio che sistema al centimetro il suo pacchetto regalo, con il nastrino e la carta rossa, levigata. Un’azione fatta a mestiere, una forma d’arte che è un piacere vedere. Così, sullo sfondo nero, si apre lo spiraglio di una luce rossa, come in una specie di sogno offerto dall’immaginazione, o in una scena di un film appositamente costruita e inquadrata attraverso l’occhio della videocamera.

Adriano Fiorillo sul proscenio mima l’arte dell’impacchettamento, Giulia Piscitelli recita sul set dietro la macchina da presa. Teatro e cinema si incontrano ancora una volta.

L’uomo dal fiore in bocca è attaccato alla vita in modo molto speciale: attraverso l’immaginazione. Così, questa particolare messinscena riesce a rendere appieno l’idea di quel suo personalissimo immaginario.

«Come un rampicante attorno alle sbarre di una cancellata», l’uomo si tiene aggrappato alla vita, riproducendola nella sua mente per mezzo delle immagini, alla maniera di un regista ante litteram.

I suoi occhi aderiscono alle visioni, come i pensieri gli si formulano a partire dalle fantasie. È in grado di figurarsi ciò che accade nelle case degli altri, come un voyeur, e quanto più sono lontane da lui, tanto più quelle persone, di cui riesce a ricostruirne la vita e le abitudini, gli appaiono familiari, al punto che gli sembra di avvertirne finanche l’alito.

Anche a noi viene concessa l’opportunità di sentire l’alito delle abitazioni altrui, perché Adriano Fiorillo e Giulia Piscitelli hanno lavorato, con la loro potenza creativa, per rendere possibile un’immersione totale del pubblico in questa stupida illusione che è la vita pensata e raccontata da Pirandello. È la vita che si tiene in piedi su illogici richiami e contorte analogie, a volte incomprensibili ai più, ma che, in fondo, è una sciocchezza.

L’uomo dal fiore in bocca di Adriano Fiorillo ci insegna che, come il teatro, anche la vita è una beffa. Sul palcoscenico dell’Oberon, i due virtuosi attori sono capaci di interpretare l’uno la testa che mette in moto la sua funzione immaginativa, l’altra l’immagine che si palesa al di là dello schermo-finestra, muovendosi in penombra dietro una tenda che, mossa da quel suo particolare alito di casa, pare ondeggiare.

Infine, Giulia Piscitelli si veste di nero e conta i fili d’erba per sapere quanti giorni ancora vivrà il poveruomo. Un lungo piano sequenza ci induce a spostare lo sguardo sul morente, che, beffardo, la fine attende. Le grinze degli occhi hanno preso quella piega serena di chi è ormai sconfitto e rassegnato, come la seggiola disgraziata nel salottino di uno studio medico.

Una luce gialla, potentissima, gli riflette sul volto, e pare provenire dalle viscere della terra, dal seme di un albicocco, o dalle travi tremolanti del palcoscenico. Non importa se la luce è reale o se si tratta di una finzione: alle soglie della vita, qualsiasi movenza o battuta diventano spettacolo, anche il teatro può somigliare a un cinematografo.

L’uomo dal fiore in bocca si confonde e scompare, chissà pure se sia mai esistito fuori dall’immaginario pirandelliano.

L’Oberon chiude la stagione superando il suo statuto di teatro, dimostrando le infinite possibilità dell’arte quando si incontra con il vero talento.

Fonte immagine di copertina: ufficio stampa teatro Oberon

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l'università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna. Si nutre di libri e poesia. I viaggi più interessanti li fa davanti al grande schermo.

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