Yerma ‘a jetteca al Teatro Oberon | Recensione

Yerma al teatro Oberon

Venerdì 23  e sabato 24 febbraio al Teatro Oberon va in scena Yerma ‘a jetteca di Fabio di Gesto.

In Yerma ‘a jetteca di Federico García Lorca, interpretato in forma originalissima dalla compagnia Ri.te.na, nella riscrittura napoletana di Fabio Di Gesto, tutto è bianco.

Bianco è il colore degli abiti, bianchi sono i panni stesi dalle capere. L’intero spettacolo si costruisce stendendo la biancheria: ecco il modo di trasformare un’azione semplice, un gesto quotidiano e routinario, in un piccolo gioiello teatrale.

Yerma si regge in piedi per paradossi: le capere che stendono la biancheria raccontano una storia, l’inciucio si fa narrazione, arte mimetica. La donna non può essere considerata tale se non è in grado di procreare, ci si aspetta da lei che sia una buona moglie e una buona madre, ma le malelingue le suggeriscono, come serpi, di scegliere la via del tradimento.

Yerma ‘a jetteca è la storia di una donna lacerata dal desiderio e dalla disperazione, condannata a non poter concepire, accerchiata da sguardi minacciosi e giudicanti.

Il coro della tragedia riesce sin da subito ad assumere un tono comico: tre capere, o pacchiane, o iettatrici. Tre sono le voci rappresentative del popolo, gli occhi dei più. Tre sono le grazie qui schierate contro il bianco candido e virgineo di Yerma, la nostra Maria, oppure la Madonna.

Le donne o sono streghe medusee, terrificanti divoratrici di uomini, o sante angelicate, non si può sfuggire a questa dicotomia. Yerma ci conferma la persistenza di questo binomio. Lo fa attraverso il dialetto napoletano, lingua preziosissima, che racchiude in sé tutte le contraddizioni di un popolo, che è grande, ma la cui grandezza risiede anche nella beffa che fa di sé stesso. Il dialetto è, dunque, la forma linguistica più efficace per questa messinscena parossistica.

Così Yerma mostra tutta la sua potenza drammatica: le battute scandite a canone, il ritmo del coro, che si rivela in grado di cantare, intonare ritornelli, danzare, gesticolare, ma anche maniare, mettendo in mostra tutta la sua depravazione, tradendo la sua mente perversa.

In Yerma ‘a jetteca c’è la storia ancestrale di una donna sterile, che passa dall’euforia alla disforia, ma c’è pure quella moderna di una donna-madonna, così com’è ancora tristemente concepita nelle realtà rionali, nei piccoli quartieri, nelle frazioni periferiche e, ahimè, forse, anche nel Paese.

Yerma è, ancora, una commedia. Le voci di popolo ci diventano subito familiari, nei loro volti ci sembra di vedere la zia, o ‘a nonn, o la nonna di nostra nonna, comunque qualcuno che conosciamo e a cui siamo affezionati. Nella messinscena teatrale assistiamo a uno scenario che, forse, già conosciamo, e questo raddoppia il potere della rappresentazione, perché riesce a dilatare, esasperandole, amplificandole, le sensazioni di disagio e di disapprovazione, che si provano di fronte a delle idee stantie, anacronistiche, vuote di senso, tristi e svilenti, ma, ad ogni modo, legate a una tradizione, a delle credenze, alle cosiddette radici del pensiero patriarcale, che ha formato, però, intere generazioni.

Yerma ha un non so che di comico, perché tutte le grandi disgrazie nascondono del ridicolo. Il riso amaro, che taglia il volto di Yerma-Maria, come una ferita impressa al centro della faccia, con un’espressione autentica e teatralmente complessa, – ma reale, più vera del vero – dimostra le doti attoriali dell’attrice protagonista.

Yerma ‘a jetteca ricorda il teatro napoletano, quello verace e viscerale, sanguigno, collerico e iracondo. La recitazione in rima rievoca le drammaturgie scritte in endecasillabi di Mimmo Borrelli. Anche questo, al pari di quello del maestro partenopeo, è uno spettacolo totalizzante, in cui a parlare sono la corporeità, la pancia. Il corpo diventa strumento, pura nudità, erotismo e castità. Yerma non ha altra scelta: o diventare santa o puttana.

L’Oberon è un teatro intimo, in cui puoi sentire cosa sta provando il vicino che ti siede accanto, e godere insieme dell’esibizione. Si tratta di un’esperienza intensa e condivisa, che dimostra come a dimensioni ridotte, a volte, possa corrispondere un elevato spessore artistico.

Yerma, in una sala così, può anche partorire un fallo insanguinato, simbolo freudiano del sesso attivo, che detiene il potere, al contrario di quello femminile, considerato passivo, un ventre che accoglie, che riceve, un involucro che avvolge e custodisce il feto.

Di Yerma possiamo compatire tutta la sofferenza, proprio perché lei sta recitando a un passo da noi. Ci può sembrare di partecipare al suo dolore. Patendo, ella partorisce, e si libera del peso di questo fallo, che non ha fatto altro che insozzarla, macchiare la sua reputazione e la sua dignità, senza restituirle in dono una nuova vita.

Giovanni, in Yerma ‘a jetteca di Fabio Di Gesto, diventa un uomo che vorrebbe riservare tutto il piacere per sé, che è incapace di gioire, e pare vivere solo della gratificazione del lavoro.

L’intera opera è risemantizzata: la ninna nanna diventa una nenia, la culla un cestino, il popolo una comare. Yerma è un tableau vivant ben strutturato, in cui tutto funziona, e voci e corpi si intersecano in un cerchio perfetto, che a crearlo sembra ci abbia messo lo zampino ‘a ciorta.

Andate a vedere Yerma ‘a jetteca, per apprezzare il buon teatro e per imparare come «scacciare il diavolo», perché il palcoscenico dell’Oberon è un luogo mistico, dove veleno e sangue, gioia e dolore, fortuna e sfortuna si possono ammiscà.

Yerma ‘a jetteca

Drammaturgia e regia di Fabio Di Gesto
Con Maria Claudia Pesapane, Luca Lombardi, Miriam Della Corte, Rino Rivetti
Compagnia Ri.Te.Na

Fonte immagine in evidenza: Ufficio stampa

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l'università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna. Si nutre di libri e poesia. I viaggi più interessanti li fa davanti al grande schermo.

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