Questa non è la mia storia – Parte seconda

questa non è la mia storia - parte seconda

Quella mattina mi svegliai particolarmente agitata. Mentre mi lavavo i denti in bagno, lo specchio rifletteva l’immagine di una donna stanca e sopraffatta. Per distogliere lo sguardo da quel rimando triste, presi il telefono e notai l’arrivo di un’email:

«Gentile Alessandra Tufano, la nostra redazione è lieta di darle il benvenuto. Aspettiamo con ansia un suo articolo di prova. Seguiranno aggiornamenti. Grazie per la disponibilità e a presto».

Mi rincuorai pensando che almeno una delle due attese a cui ero relegata fosse finalmente giunta al termine. Tuttavia, riuscii a provare sollievo solo per un attimo, perché l’unica cosa che contava davvero per me era che anche l’altra attesa si concludesse. L’agonia durava ormai da sei giorni, e aspettavo che fosse lei a porvi fine, con la stessa speranza con cui un paziente malato attende la cura per il cancro. Lo stato di agitazione in cui versavo ebbe modo di calmarsi leggermente durante le prime ore di lavoro. All’epoca scrivevo per diverse riviste online, quindi avevo la fortuna di occupare la mente attraverso la lettura di argomenti vari, che spaziavano dalla moda alla cronaca. Scrissi molto ed il tempo trascorse velocemente. Ma il mio sorprendente slancio di creatività venne interrotto dalla vibrazione del telefono. Era lei. Mi scrisse dicendo che voleva vedermi per parlare. Le parole di quel messaggio si agitarono davanti ai miei occhi per tutto il resto della giornata, mi accompagnarono sotto le coperte e si addormentarono con me.

Il giorno del giudizio si avvertiva un freddo gelido accompagnato da un vento che quasi ti alzava da terra. Mi recai al punto di incontro e quando la vidi arrivare mi sembrò stranamente calma. Ci incamminammo. La tensione che premeva tra di noi non ci permise di occuparci per bene della scelta del bar, per cui fu molto casuale e sbrigativa. Paola si sedette affianco a me e lo spigolo del tavolo quadrato faceva angolo tra le nostre figure. Mi consolai nei giorni successivi dicendomi che, al contrario del bar, la scelta di quella disposizione non fu per niente casuale, fu anzi suggeritrice di un esito premeditato già molto tempo prima. I suoi occhi grandi e marroni mi fecero ben sperare perché mi guardavano con la foga di chi ti guarda ma non gli basta. Cercò di avvicinarsi toccandomi timidamente il braccio e nel soccorrere quel suo esporsi, le sorrisi nervosamente. Quel gesto appena accennato mi comunicò tutto il suo dispiacere. Stavamo per lasciarci. «Hai avuto notizie dalla redazione?» mi chiese. La domanda mi infastidì perché mi sembrò una finta premura nei miei riguardi. «Sì, ieri mi hanno mandato una mail». Risposi secca per limitare la sua manovra di temporeggiamento. Non ci vedevamo da giorni, e quando me la ritrovai davanti dopo quella pausa piena di incertezze e paure, ammisi a me stessa, con sincera arrendevolezza, che mi era mancata. Il sospiro che esalò prima di parlare, dopo una decina di minuti di silenzio, fu più tagliente del freddo che mi congelava le mani. Quando prese coraggio e cominciò ad assemblare in modo incongruo qualche frase, sentivo che le sue parole, una ad una, mi strappavano la pelle, dandomi l’impressione di starmi decomponendo. Mentre lei provava a costruire la sua versione di realtà, la mia intanto cadeva a pezzi. Ciò che provò a dirmi fu molto frammentato per cui dovetti leggere fra le righe. La sentenza finale da lei decretata fu che, quei giorni di solitudine le erano stati utili per capire che la bellezza e la sincerità del nostro legame non erano abbastanza. In modo molto grossolano, mi rivelò che in lei, di legame, ne abitava già un altro, più radicato e antico, e per questo evidentemente, più meritevole di essere scelto. Il silenzio che si impose tra di noi dopo questa nuova forma di realtà, mi fece sprofondare in uno sconforto devastante. Se da un lato sentivo che stava delicatamente smontando il nostro scambio d’amore, dall’altro, Paola tesseva con attenzione un filo sottile fatto apposta per legarmelo al dito, simboleggiato dal suo ripetere più volte la frase: «sei importante ma è meglio che mi faccio da parte». Ma perché continuava a sostenerlo? Improvvisamente, il quadro mi divenne chiaro: vedevo Paola intrappolata da corde doppie che aleggiavano sopra la sua testa, manovrate da una mano gigante. Quell’inconsapevole tentativo di manipolarmi che si stava consumando dinanzi i miei occhi delusi, mi risuonò familiare, nonostante fossi sicura non le appartenesse. Entrambe eravamo soggiogate dalla presenza di un fantasma che faticavamo ad identificare solo con gli occhi. A quel tavolo, Eva era seduta con noi e stava esercitando la sua egemonia da remoto. Non riesco a quantificare la durata dell’incontro, so solo che ad un certo punto abbandonammo il tavolo della disfatta per mutua disperazione. Dell’ultimo bacio che ci regalammo, ciò che mi atterrì fu lo sguardo penetrante di Paola. Mentre le sue labbra premevano contro le mie, mi stava supplicando con gli occhi di scusarla. Si sentiva in colpa per non aver valutato in tempo la bomba ad orologeria che si portava dentro. Ci salutammo in lacrime, distrutte dalla stupida pretesa di aver creduto di poter vivere un amore felice e libero. Quel filo lo portai fedelmente legato al dito, più di quanto avessi immaginato per me stessa.

Agli inizi della nostra storia, faticavo a capacitarmi di aver incontrato una persona così desiderosa di starmi accanto. L’anno in cui incontrai Paola, stavo attraversando un forte momento di stress e angoscia, per cui credevo di aver terminato le possibilità da offrire al mondo. Tant’è che mi ci volle un consistente periodo di tempo per assecondare le sue tenerezze e per visualizzare la presenza di una qualche bontà nei miei riguardi. Non concepivo il motivo del suo affetto e mi chiedevo spesso «ma cosa vuole da una come me?» L’ermetismo emotivo con il quale mi si rivolgeva, intralciava parecchio il mio tenerla sotto esame. A discapito della sua premura, pretendevo a tutti i costi di collaudare l’efficienza di quel sistema di protezione che avevo strutturato con così tanta cura. Ma lei captò la mia difesa e mi accompagnò delicatamente nella scoperta della sua fallacità. Per questa ragione, decisi di accoglierla senza riserve, celebrando la nascita di un’intimità speciale e reciproca, che continuò a crescere fino all’ultimo giorno trascorso insieme. Sperimentare la dispersione di quest’intimità diede il via ad una gara di supposizioni, dubbi e sconforti vari che mi maciullarono il cervello.

Non so dire bene in che misura ci fossimo amate io e Paola, e se mai questo fosse accaduto .davvero. Il pezzo di vita che avevamo condiviso mi sembrava interamente frutto della mia immaginazione. Ad oggi, non so nemmeno definire in che maniera io sia esistita dentro di lei e che tipo di posizione io abbia assunto nella sua sfera interiore. Sentivo di aver solo sfiorato il suo tiepido cielo, priva di una reale occasione di sosta per imprimermi in lei. Ciò che invece mi sembrava estremamente tangibile era la fossa lasciata dal suo passato ingombrante, vividamente abitato da Eva, l’unico detenente di uno status predefinito; di fatti, né io né nient’altro eravamo minimamente degni dell’assoluto legame instauratosi tra loro due. Di colpo, il mio ingresso nella sua vita mi parve di una banalità atroce, perché nulla poteva essere paragonato a ciò che mi aveva preceduta. Gli attimi vissuti con lei cominciarono a sbiadire man mano, mentre i luoghi in cui si erano amate presero pianta stabile nella mia memoria. Le avevo sbirciate segretamente quando mi raccontava della loro relazione. La prima volta che ci baciammo, la smania con cui desiderava le mie labbra mi sembrava uno sforzo disperato di ricostruire le macerie dopo un grande attacco. E nei momenti in cui io e Paola facevamo l’amore, il suo corpo indossava le fattezze di un terreno già conquistato e abbondantemente usurpato, senza più risorse da offrire. Fu palese che la personalità di cui mi ero innamorata fosse il risultato di una risposta diretta e contraria all’impronta che Eva aveva lasciato dentro di lei. Per spiegarmelo, finii per associare l’anima di Paola ai negozi di seconda mano, dove gli oggetti, assortiti casualmente, portano il peso di una vita già vissuta e consumata, di cui tu non potrai mai conoscere la storia. Durante la nostra relazione, il suo modo di stare al mondo mi ricordava continuamente l’ineluttabilità di quel primato che io non avevo avuto e di come il tempo che le restava da vivere fosse semplicemente legato a una mera e passiva esposizione agli eventi.

Dopo il nostro incontro, io e Paola non ci rivedemmo mai più e le mie speranze di incontrarla per caso, nel centro della città, non vennero accolte da nessun astro allineatore. La mancanza che avvertivo e il tornado di emozioni che abitavano la mia mente in quei mesi, però, bussarono alla porta sotto forma di sogno ricorrente. Le immaginavo sempre insieme, mentre si tenevano per mano, si abbracciavano, ridevano o facevano l’amore. Per un lasso di tempo abbastanza lungo e tortuoso, Eva fu il mio chiodo fisso preferito: pensavo ai suoi occhi blu, alla sua seducente influenza e al suo magnetismo. Tutte caratteristiche che sapevo di non poter acquisire nemmeno se le avessi studiate diligentemente. Non l’avevo frequentata, ma sapevo che sarei stata in grado di riconoscere benissimo la maniera in cui si spostava i capelli dietro l’orecchio, come apriva la bocca larga per sorridere e quanto fosse rumorosa la sua risata. L’ossessione che presi verso quella donna mi fece addirittura credere di volerle bene

La separazione con Paola mi gettò in un paragone tanto folle quanto reale. Nessuno poteva competere con quel dittico potente, nemmeno le mie precedenti relazioni, che mi apparvero subito inutili e mediocri. Ero stata troppo accomodante? Troppo facile da gestire? Forse a lei piacevano quelle più irruenti e scomode? Mi recriminai tutto l’amore libero che fui capace di darle dato che non le impedì di andarsene via. La colpa ricadde su di me perché non ero stata né previdente né autoritaria, e provai vergogna per non aver avuto l’incisività di Eva. La loro storia d’amore difficile e travolgente si era impressa nella mia memoria a tal punto che visualizzavo le loro vicissitudini di coppia ogni volta che ascoltavo una canzone d’amore qualsiasi. A volte speravo di imbattermi in loro, unite e sorridenti, spinta dal sadico piacere di rievocare quel triangolo che mi aveva fatto sentire così irrimediabilmente esclusa. Tutto ciò che volevo, era essere, ancora una volta, testimone di quel sentimento indistruttibile, confermare che avevo sempre avuto ragione. Nei giorni pregni della sua assenza, consultai l’intero archivio del nostro rapporto, e avviai un’attentissima ispezione riguardo le premure e le intenzioni avute per me, dubitando di ogni minimo dettaglio; sospettai addirittura che mi avesse tradita con lei. Col senno di poi, il nostro modo di stare insieme finì per apparirmi vecchio e consumato, i suoi gesti scadenti e riutilizzati. Paola ai miei occhi si era tramutata in una bellissima venditrice di proposte vuote e riciclate. Temevo profondamente che le sue iniziative fossero state il frutto di un’incapacità di lasciar andare ciò che c’era stato prima di noi. Allo stesso tempo, però, il ricordo vivido dell’intensità dei nostri incontri, dei nostri corpi che si cercavano voracemente, mi impediva di accettare che dietro la bellezza di ciò che aveva provato per me, si celasse una frattura di tale portata. Mi sembrava innaturale pensare che il suo amore, così imbottito e gentile, provenisse da un luogo estremamente scomposto e buio. Spesso mi domandavo se non fossi servita solo come strumento per confermare che niente poteva contro quel legame. L’idea mi faceva venire voglia di vomitare. Questo effetto collaterale generato dalla rottura con Paola, gettò le basi per una solidissima e longeva sfiducia verso l’essere umano. Non mi fidavo nemmeno più di me. Tutto ciò che amavo non era mai attendibile, mentre le mie paure erano sempre più vere che mai.

La prova del mio impazzire si confermò quando cominciai a bramare il vissuto di Eva. La sua storia aveva assunto un alone di fascino tale da propormi una continua svalutazione di quelle che erano state le difficoltà della mia vita; arrivai ad invidiare le sue gioie e, soprattutto, i suoi dolori. Desideravo, più di ogni altra cosa, fare esperienza di ciò che l’avesse condotta ad essere quello che era, convinta che, in quel modo, Paola avrebbe finalmente decretato il mio essere egual degna del suo amore lenitivo. Questo malessere mi addolorò moltissimo e mi fece notare che Eva si era impadronita anche di me. Rinchiusa in questo vortice di sensi smarriti, l’unica soluzione che credevo potesse salvarmi era il ritorno di Paola, avrebbe annullato il mio dolore e mi avrebbe tolto dal ruolo di non scelta in cui lei stessa mi aveva confinata. Per un po’ di tempo, fu tutto ciò che segretamente sperai nel mio cuore.

Mi riservai un consistente periodo di pausa dagli amori, avevo bisogno di digerire uno per uno i gusti forti di tutte le emozioni che seguirono il mio andare avanti senza di lei. La rabbia fu la prima tappa del processo di smaltimento e annebbiò la mia vista per parecchio, facendomi somigliare ad una pentola a pressione. Com’era possibile che fosse stata tanto irresponsabile? Che gusto malato era quello di aver spalancato le mie fauci per poi smettere di nutrirle all’improvviso? Cercai disperatamente la verità nel divario tra le sue azioni e le sue ultime parole, tra il presunto amore per me e quello per Eva che mi aveva taciuto. Ciò che mi raccontavo non mi bastava, motivo per il quale mi affidai ad un parente della rabbia. Il desiderio di vendetta mi esplose in faccia in modo violento, cercando un aggancio nei posti più oscuri della mia mente. Le speranze che nutrii in questo secondo step risultavano fuori dalla grazia del signore. Ero così accecata che pregai di non incontrarla per paura di una reazione spropositata. Mi sembrò un’impresa titanica resistere alla tentazione di giustiziare il mio dolore. Per evitare brutti epiloghi, l’unica cosa rimasta da fare fu innescare delle strategie di distrazione. Mi appellai all’ultimo briciolo di buon senso seppellito sotto i chili pesanti della negazione. Perciò ripresi ad occuparmi più di me, indirizzando le mie energie nella psicoterapia, nella scrittura e negli amici, che mi avevano sempre sostenuta. Presto mi raggiunse una magra e delusa rassegnazione che mi portò ad una serie di riflessioni. Innanzitutto, mi meravigliò notare la disciplina con cui ero riuscita a rimanere all’interno della mia difesa e della mia ferita. Per la prima volta nella mia vita, non stavo rifiutando una condizione di sofferenza né tantomeno stavo pretendendo che l’altro mi aiutasse ad uscirne. La stavo attraversando autonomamente in tutte le sue fasi. Il fenomeno fu così evidente che la preoccupazione di essere scelta mi scivolò dalla mente, facendo spazio ad una nuova presa di coscienza, la quale mi fece fare ritorno all’unica casa che avevo, la stima verso di me. Non ci fu altra strada se non accettare che il mio legame con Paola non sarebbe mai stato risanato né con la rabbia né con altro. Più imparavo a convivere con la sua assenza, più mi rendevo conto che Paola era stata più di tutto un’esperienza che mi aveva attraversata, devastata, e in qualche modo insegnato qualcosa che forse non avrei mai potuto apprendere altrimenti. Di lì, non so definire con esattezza quale fu il momento preciso in cui mi vidi stare meglio, so solo che ripresi l’appetito, uscivo di più e mi sentivo più serena. Mi accorsi anche di alcune piccolezze della mia relazione con Paola che non mi piacevano e che mai più avrei barattato in futuro per un po’ di amore. Grazie ad una prospettiva più lucida, capii quanto il suo approccio accidioso mi avrebbe tenuta lontano da lei per sempre, poiché si scontrava con l’evoluzione che stava accadendo in me: l’avvicinarmi ad essere una donna che sceglie di sé e per sé. Piano piano, mi resi conto che, per uno strano volere del destino, ero divenuta spettatrice di una proiezione che non avevo scelto. Forse cominciai a rinsavire perché realizzai di aver fatto esperienza di una narrazione che non mi apparteneva. In un giorno particolarmente luminoso, tutto ciò mi fu limpido. Il sole caldo che si innalzava e batteva sulle finestre della mia camera, riscaldandola dal freddo di dicembre, mi sembrò un valido suggerimento per continuare a nutrire i terreni fertili della mia vita, nonostante ci fossero dei buchi enormi in cui continuavo ad inciampare. Spensi il computer, mi preparai ed uscii a fare una passeggiata. Mentre distribuivo i miei passi incerti sull’asfalto umido e malandato della mia città, appurai il bisogno di un cambiamento, di una nuova pagina e una nuova penna. Più camminavo, più sentivo di abbandonare alle mie spalle i tormenti e i dubbi legati alla vicenda. Mi spogliai di tutto ciò che sapevo, smisi di identificarmi con ciò che Paola aveva vissuto e che, fino a poco tempo prima, avevo creduto di vivere anch’io. Quel mito che tanto mi aveva sedotto, non era la mia storia.

Fonte immagine: Freepik

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