Intervista alla poetessa Yuleisy Cruz Lezcano. Di un’altra voce sarà la paura è l’urlo di tutte le donne di fronte all’indifferenza del mondo.
Di un’altra voce sarà la paura è la nuova silloge poetica della scrittrice Yuleisy Cruz Lezcano, nata a Cuba. La raccolta, pubblicata da Leonida edizioni, comprende 45 poesie ed è divisa in sezioni; ogni sezione inizia con una fotografia dell’artista Adele Quaranta accompagnata da un aforisma della poetessa cubana. Nei suoi testi la Lezcano si accosta con realismo, ma al tempo stesso con empatia e delicatezza, al tema della violenza sulle donne, di cui è stata vittima e non soltanto spettatrice.
Yuleisy Cruz Lezcano: «La mia poesia, nata dall’attesa e dal silenzio»
Poesia dal verbo greco poiew che significa fare, creare. Un filare di parole con cui il poeta sceglie di dare corpo alla propria voce. Ha a che fare con il modo in cui questa voce viene gettata nel mondo, parla ai fruitori, sopravvive al consumo e al tempo. E la poesia, spesso, come una ginestra leopardiana nasce ai bordi delle vite più ardue, delle terre più arse.
«Perché la poesia? Me lo chiedo anch’io. Forse è stata la poesia a scegliere me. Molte volte mi sono ritrovata a cercare di definire il tempo e lo spazio, a decifrare i segni, l’essere umano, la vita, la mia vita, me stessa. La poesia mi ha concesso di indagare. Ha costituito per me uno strumento di indagine e di scoperta, frutto, contraddittorio, di una volontà lucida della ragione e del sentimento. Avevo sei anni quando la mia vita è stata investita dalla violenza. La violenza di un uomo che non era nemmeno mio padre. Ho vissuto tra fughe, nel cuore della notte, ritorni e maltrattamenti. È stato in quel contesto che ho iniziato a sviluppare una sensibilità particolare verso quello che c’era e quello che non c’era; tra il visibile e l’invisibile vivevo la mia vita, attendendo sempre qualcosa. Anche se non accadeva nulla, sentivo lo stesso che la mia attesa era perfetta, perché mi insegnava ad apprezzare quegli spazi vuoti, quelle pause che ho sempre riempito con la fantasia. Così mi sono avvicinata alla poesia, prima ancora di imparare a scrivere. Ho costruito così tutti i frammenti dei miei pianeti persi, ho imparato ad ascoltare la voce delle piccole cose e a viverle con la loro lentezza».
Di un’altra voce sarà la paura: la violenza nei temi e nello stile
Una poesia nata dalle immagini vivide che prendono forma in una mente abituata a ricamare presenze sulle assenze e momenti attorno alle pause. Nata, insomma, come tutte le cose più forti, dalle mancanze. Ma non è una poesia astratta quella di Yuli Cruz Lezcano.
Le immagini sono crude, lo stile è sfaccettato e il linguaggio materico, come se il linguaggio non avesse più voglia di sublimare una realtà violenta che è giusto venga descritta nella sua cruenza. Stamane ho sentito un urlo rosso parlare da urlo, ed era sangue di lava, che bruciava, che parlava come il mondo, racconta in una delle sue poesie.
«Il mio urlo nasce da un tempo senza tempo: la parola è stata per me una sorta di arca che mi ha aiutata a fluire nelle acque di tutti i segreti della realtà e della vita, che mi ha aiutato a fuggire dalla violenza subita e mi ha condotto su un’isola deserta. Poi, crescendo, ho trovato tante mani, erano di altri naufraghi come me. Abbiamo instaurato un dialogo. Durante il mio lavoro nel consultorio familiare ho capito che avevo la responsabilità di parlare per tutte queste donne. È per questo che in Di un’altra voce sarà la paura ho usato la mia voce poetica per parlare a nome di chi non ha potuto e non può.
Così ogni violenza ha incontrato nella mia penna una metafora e la metafora è divenuta un personaggio e poi tanti personaggi. I volti delle vittime e i loro carnefici, perfino i luoghi dove le vittime venivano abusate hanno assunto volti, occhi, braccia; tutto quel dolore si è trasfigurato e si è incarnato. La mia parola non ha sublimato nulla, la mia parola ha cercato di trasformare le cose più lontane in cose vicine, per riprodurre i fatti in una chiave emotiva».
La voce di Yuleisy Cruz Lezcano è un urlo rosso fatto esplodere tra la folla, un lenzuolo insanguinato steso in bella mostra per strada. Non c’è più spazio per l’arte che imbelletta, è tempo di un’arte che sappia scuotere e denunciare. In Cento cani su una gatta, il cui titolo richiama un episodio di attualità purtroppo noto e un’espressione tra le più brutalmente comuni e sessiste, si entra senza riserve nell’inferno umano. La voce è quella soffocata di una donna che implora pietà e compassione in un mondo che sembra essersi abbandonato all’indifferenza.
Le immagini, qui più che in altre liriche, sono rese violentemente vivide da artifici retorici, asindeti, sinestesie e accostamenti insoliti di parole che appartengono a piani semantici differenti; questi espedienti consentono di accelerare il ritmo e di riprodurre la violenza in tutte le sue sfumature di non-colore, per evidenziare ogni più macabra conseguenza del suo impatto sul mondo.
La poesia come strumento di denuncia e resistenza
«La forza di questa mia silloge non è nella sua avanguardia estetica, ma nel suo potere quasi ripugnante di descrivere la violenza, la disuguaglianza o il vuoto nello sviluppo umano. Le figure retoriche che uso, soprattutto le metafore, rinviano sempre a un mondo crudo che cerco di materializzare per rendere corporeo il male. Per questo motivo ricorre spesso il tema dell’animalità, in senso positivo e anche in senso negativo: l’istinto ferino, nello stesso tempo, evoca la libertà agognata a tutti costi e anche conquistata dalla donna, ma simboleggia anche l’efferatezza dell’indole umana.
Il poeta deve squarciare il silenzio con un atto di denuncia e resistenza. La funzione della letteratura, e della poesia in particolare, è quella di creare due effetti concomitanti: quello mimetico – una simulazione della realtà – e quello catartico – l’esorcizzazione delle nostre stesse emozioni, attraverso quella stessa simulazione. Attraverso l’imitazione, con immagini crude, ho cercato di condurre il lettore alla conoscenza del fenomeno e di educarlo all’empatia.
Assistere a scene violente, rese attraverso le immagini poetiche, è a tutti gli effetti una terapia, un modo per liberare le nostre emozioni. Aristotele associa il termine catarsi a quello di anagnorisis che definisce come un cambiamento dall’ignoranza alla conoscenza, all’amore o all’odio che si produce tra le persone».
Spero di essere riuscita nell’intento.
Violenza, animalità, dialogo, fuga, memoria sono i temi più ricorrenti nelle parole di Yuli Cruz Lezcano. Una fuga che, però, non ha niente a che fare con la fede. Le possibilità di riscatto e di salvezza nascono dalla regressione nel mondo dell’infanzia attraverso la memoria o dalla capacità di crearsi una nuova storia. «Nella mia poesia le vie di fughe non si possono elaborare in chiave divina, perché non esiste affidamento a nessuna divinità. Le mie parole scavano dentro l’abisso dell’essere umano, senza guardare mai verso l’alto».
Nella mia vita? Non sono mai fuggita. La poesia è la mia unica scelta di fuga, la mia unica forma di follia. È il mio intento di tentare l’impossibile, di amare la vita con tutte le mie forze nonostante tutto, di difenderla nonostante tutto, di credere nelle persone, nonostante tutto. È dare e darmi opportunità, creare incontri, momenti di condivisioni, tuffarmi nelle relazioni umane, continuando a disegnare le mie coordinate.
Vorrei così mettere in movimento le mie parole, come coordinate. Spero che quando non ci sarò, loro possano diventare il testimone del fatto che sono esistita.
Immagini da archivio personale