Heren Wolf e il suo nuovo singolo: Far | Intervista

Heren Wolf

Far, il ritorno sulle scene di Heren Wolf

Francesco Pio Ricci, in arte Heren Wolf ritorna con Far, il suo ultimo singolo. Già disponibile sulle maggiori piattaforme di distribuzione (Youtube, Spotify), la canzone rappresenta il ritorno sulle scene dell’artista irpino, dopo i successi dei singoli Moonlight e Phoenix. Heren Wolf è un personaggio eclettico e dalle mille sfumature, ed Eroica Fenice ha avuto il piacere di parlare con lui.

Heren Wolf: l’intervista

Far è il tuo ultimo singolo, da dove nasce l’idea della canzone?

Ho scritto questa canzone come una lettera d’addio ad una vita che non mi soddisfaceva più. Quattro anni fa mio padre è morto ed improvvisamente tutto intorno a me è diventato estremamente decadente e pieno di dolore. Quindi ho scritto Far nel tentativo di ritrovare la bellezza, usando la metafora del “grembo” come luogo sicuro e primordiale, in cui il dolore non ha ancora impresso le sue orme. Quando facciamo esperienza del dolore, immediatamente quel “fanciullino” in noi che vedeva il mondo come un luogo puro ed incontaminato scompare, lasciando il posto ad un cinico realismo. Con questa canzone dico un po’ addio a quella purezza, per certi versi ingenua perché non contempla il dolore, e cerco di trovare quell’armonia di dissensi che mi consenta di accogliere la sofferenza come esperienza inevitabile.  Se da un lato, Far esprime il mio disperato bisogno di “ricostruirmi” dopo l’urto della perdita di mio padre, mantenendo intatto lo stupore dinanzi alla vita, dall’altro, anela ad un “altrove”, un posto ultraterreno, dove le mie ferite possano essere lenite e devo possa rincontrare mio padre.

Empire, Moonlight, Phoenix sono solo alcune tra le precedenti canzoni che hai pubblicato. Come mai la scelta di scrivere esclusivamente in inglese?

Il progetto Heren Wolf è nato a Londra due anni fa con il desiderio di arrivare ad un pubblico internazionale. Sin da bambino ho prediletto la musica inglese nei miei ascolti e questo ha fortemente influito sulla mia creatività. Per molto tempo l’inglese ha funto da schermo, proteggendomi dai miei stessi demoni. Con i miei testi affronto momenti dolorosi e traumatici, cercando di trasformarli in qualcosa di più bello e armonioso e grazie all’inglese riesco a pormi ad una certa distanza dagli eventi che racconto.  È da un po’ di tempo, però, che provo a scrivere nella mia lingua madre, spinto da un fortissimo desiderio di creare una connessione più salda con le mie radici e di poter esplorare la mia sfera emotiva a fondo. L’inglese, infatti, nonostante abbia saputo (e continui a) proteggermi, ha anche rappresentato un grande ostacolo nell’espressione della mia emotività, non tanto nella stesura di canzoni ma quanto nella comunicazione dei miei stati d’animo. La lingua ci consente di dare una forma tangibile alla nostra interiorità e non essere completamente padrone dell’inglese (specialmente all’inizio), mi ha portato a chiudermi in me stesso, non avendo un vocabolario emotivo che mi consentisse di venire fuori in tutti i miei colori.

Fai parte anche di un collettivo che promuove musica. Di cosa vi occupate nello specifico?

Sì, verso la fine di agosto, io ed altri tre musicisti abbiamo deciso di unire le forze per creare uno spazio comune, non solo per promuovere i nostri progetti e quelli di altri artisti emergenti ma anche dove musica e cambiamento sociale potessero coesistere. Crediamo fortemente che la musica possa aiutare a formare una coscienza collettiva, abbattendo barriere e pregiudizi per costruire un mondo migliore. Noi vorremmo fare la nostra parte ed usare le nostre voci e la nostra musica per amplificare conversazioni su argomenti come uguaglianza di genere, cambiamento climatico, razzismo, omofobia, salute mentale e tanti altri. L’intento originario era quello di instaurare queste conversazioni durante eventi dal vivo, ma ovviamente la pandemia ci ha ostacolati e quindi adesso stiamo cercando di avviare questo percorso sui social media.

Come ha inciso il Coronavirus sulla tua carriera ed il tuo modo di fare musica? L’arte e la cultura in generale hanno subito un durissimo contraccolpo dalla pandemia globale in atto. 

Purtroppo il Coronavirus ha fatto sì che alcuni eventi che avevo in programma venissero cancellati ed ha avuto un impatto negativo sulla mia creatività. Il mio rapporto con la musica in questo periodo è stato e continua ad essere particolarmente ambiguo. La musica è lo strumento a cui ricorro per alchemizzare il mio dolore, tuttavia, in un periodo così fragile, l’espressione artistica è diventata quasi una forma di violenza psicologica. Nonostante nutrissi un forte desiderio di creare e trasformare il caos di emozioni in armonia, per molto tempo sentivo di aver perso ogni contatto con il mio mondo interiore, di avere esaurito ogni idea, o essere a corto di parole. Quindi ho deciso di lasciare andare ogni tipo di aspettativa, abbandonando completamente quella (talvolta tossica) esigenza di essere produttivo e creativo ad ogni costo. Così come le altre crisi della mia vita, questa situazione mi ha ricordato l’importanza dell’equilibrio. Tra silenzi e suoni, tra espressione e contemplazione. Riempire ogni spazio non è sempre l’opzione migliore e la stasi è necessaria quanto il movimento. Il Coronavirus ha rappresentato per me un inverno creativo, durante il quale potessi rigenerarmi e prepararmi per affrontare la vitalità della “primavera”.

D’altro canto, la scrittura e la musica non mi hanno del tutto abbandonato e mi hanno consentito, nei rari sprazzi di creatività, di canalizzare la mia frustrazione e di esplorare nuove forme di espressione, come l’italiano per esempio. È proprio nella mia lingua madre che ho scritto una canzone sulla fragilità di questo momento storico e sulla speranza ardente di poter ritornare ad abbracciarsi e riconnettersi agli altri.

Dopo un traguardo importante come l’ultimo singolo, come immagini il tuo futuro? Hai già in cantiere qualche altro progetto in ambito musicale?

Se c’è una cosa che il Coronavirus ha ribadito è che il futuro come realtà temporale non esiste e che il nostro sguardo dovrebbe riporsi sul presente, spingendoci a coglierne ogni attimo. Inoltre guardare al futuro in un momento così precario come quello che stiamo vivendo, un po’ mi spaventa. Ho un irrazionale timore che fare progetti adesso porti quasi sfortuna e che un altro ostacolo sia dietro l’angolo, pronto a frantumare ogni speranza. Tuttavia, non posso e non riesco a non sperare che la situazione migliori, che le cose si sblocchino e che presto potrò tornare ad esibirmi. Nel frattempo ho già altre due canzoni pronte per essere pubblicate tra Febbraio e Maggio e sto lavorando ad un progetto con un musicista Siriano ed un poeta Senegalese, per raccontare la storia di rifugiati, provando a trasformare quel dolore in un’esperienza catartica.

Fonte dell’immagine: Ufficio Stampa

A proposito di Matteo Pelliccia

Cinefilo, musicofilo, mendicante di bellezza, venero Roger Federer come esperienza religiosa.

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