Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, quando è avvenuta?

abolizione della schiavitù

Il 31 gennaio del 1865 è una data importante non soltanto per gli Stati Uniti d’America, ma anche per l’umanità intera. In quella data viene ufficializzato il tredicesimo emendamento della Costituzione relativo all’abolizione della schiavitù.

Fin dal XVI secolo, ancor prima della fondazione dello stato americano, i coloni europei portarono gli schiavi dall’Africa nei loro territori allo scopo di coltivare i campi di caffè, tabacco, canna da zucchero e cacao. La colonia di San Miguel de Guadalupe, fondata nel 1526 in South Carolina, fu la prima a sfruttare la forza-lavoro di questi uomini.

Come afferma lo storico e saggista Niall Ferguson, gli europei vennero a conoscenza di quella che fu nota come tratta degli schiavi dagli stati africani che affacciavano sul golfo di Guinea. Questi vendevano gli schiavi ai coloni, i quali venivano portati a lavorare nelle colonie. Gli schiavi neri divennero il motore di un’economia basata sulla piantagione concentrata nell’Oceano Atlantico.

Con la spinta verso gli stati dell’ovest e la rivoluzione del 1776 che portò alla nascita degli Stati Uniti d’America, la schiavitù venne regolamentata all’interno della Costituzione. Tuttavia dall’Europa (i cui stati, va ricordato, avevano approfittato dei vantaggi della tratta) iniziarono a farsi sentire anche le prime voci di condanna contro questo procedimento disumano. Complici furono gli intellettuali illuministi che non potevano tollerare l’esistenza della schiavitù in un mondo basato sulla libertà e sull’uguaglianza degli uomini. Ma non bisogna dimenticare che nel 1760 la rivoluzione industriale inglese aveva portato una nuova idea di lavoro basata sull’impiego delle macchine, motivo per cui l’uso della manodopera era considerata obsoleta e primitiva.

Fu proprio in Inghilterra a nascere nel 1787 il primo movimento per l’abolizione della schiavitù, guidato da William Wilberforce, che portò all’abolizione (seppur formale) della tratta il 1 gennaio del 1808. Con un provvedimento del 26 luglio del 1883 il Parlamento inglese ordinò l’abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche.

Toccò poi alle nazioni europee, nonché grandi potenze coloniali, cercare di fare il passo più importante: la Conferenza di Berlino del 1885 vietò la tratta degli schiavi e il loro commercio, mentre la Conferenza di Bruxelles del 1890 obbligò l’ispezione delle navi sospettate di trasportare esseri umani a bordo.

L’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti

Tra il 1776 e il 1804 alcuni stati americani iniziarono ad abolire gradualmente la schiavitù. Questo avveniva principalmente negli stati del nord, dove andava a svilupparsi un’economia di stampo industriale con gli ex-schiavi neri che iniziarono a vivere come uomini liberi seppur con libertà limitate: essi non potevano votare, i loro figli non potevano andare nelle stesse scuole dei bambini bianchi e veniva loro proibito di compiere alcuni lavori. In pratica essi vivevano in uno stato di segregazione.

Diversa era la situazione degli stati del sud, la cui economia agricola, basata principalmente sul commercio del cotone, necessitava della manodopera degli schiavi. In quegli stessi stati, tuttavia, nacque il primo movimento abolizionista volto a liberare i neri dal giogo dei loro padroni. Si tratta della Underground Railroad, una linea di “ferrovia sotterranea” organizzata da ex schiavi e abolizionisti che permise la fuga di molti uomini e donne in luoghi dove la schiavitù non esisteva.

Fondamentale è anche la nascita dell’American Colonization Association nel 1817 che fu anche responsabile della fondazione dello stato di Liberia nel 1822, dove si stabilirono 20.000 ex-schiavi.

Inutile dire che questa situazione frantumò gli Stati Uniti in due parti: gli abolizionisti stati del nord e gli schiavisti stati del sud. Lo scontro tra le due parti si fece sempre più intenso con proteste ed episodi tragici, ma si giocò anche sul piano culturale: nel XIX secolo si era sviluppata sia una letteratura pro-abolizionista che denunciava le condizioni di vita degli schiavi e il cui rappresentante maggiore è il romanzo La capanna dello zio Tom di Harriet Stowe, sia una letteratura che propugnava l’immagine dello schiavo coccolato e amato dal proprio padrone con la nascita del personaggio-tipo della mammy,  la domestica bonacciona e in sovrappeso che vive nelle case dei padroni bianchi (come quella che si vede in Via col vento, seppur il romanzo di Margaret Mitchell è del 1939).

Le elezioni del 1860 segnarono un punto di non ritorno. A ricoprire la carica di presidente fu il repubblicano Abramo Lincoln che appoggiava i movimenti abolizionisti. Questo fu un segnale d’allarme per gli stati del sud, i quali temevano di vedere la loro influenza sul commercio di cotone soppiantato dagli stati del nord, dove lo stesso cotone veniva prodotto tramite i macchinari. Fu la goccia che fece traboccare il vaso e che portò allo scoppio della guerra civile americana nel 1861.

C’è da dire che una guerra con obiettivo principale il nobile scopo di abolire la schiavitù e di cui si fece promotore lo stesso presidente Lincoln è un’idea romantica, veicolata dal cinema e dai media odierni. In realtà il motivo scatenante fu la disparità economica tra il nord e il sud degli USA che finirono per combattersi tra di loro divisi in due schieramenti opposti: i 20 stati “liberi” dell’Unione che appoggiavano la politica di Lincoln e gli otto Stati Confederati d’America, che invece avevano dichiarato l’intenzione di scindersi dagli Stati Uniti (motivo per cui questa guerra è anche definita “di secessione”).

L’abolizione della schiavitù venne ottenuta a passi graduali. Con un emendamento del primo gennaio del 1863, Lincoln liberò i soli schiavi degli stati dell’Unione in cui la schiavitù vigeva ancora. L’atto finale fu il XIII emendamento della Costituzione del 18 dicembre del 1865, che mise fine alla schiavitù in tutti gli stati.

Immagine in evidenza: Pixabay

A proposito di Ciro Gianluigi Barbato

Classe 1991, diploma di liceo classico, laurea triennale in lettere moderne e magistrale in filologia moderna. Ha scritto per "Il Ritaglio" e "La Cooltura" e da cinque anni scrive per "Eroica". Ama la letteratura, il cinema, l'arte, la musica, il teatro, i fumetti e le serie tv in ogni loro forma, accademica e nerd/pop. Si dice che preferisca dire ciò che pensa con la scrittura in luogo della voce, ma non si hanno prove a riguardo.

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