Viaggiando in shinkansen – il treno ad alta velocità del Sol Levante – è molto probabile che capiti di notare fuori dal finestrino del treno un gruppo di alberi simile a una piccola isola verde in mezzo alle risaie con un portale torii posto a una delle sue estremità. Queste piccole foreste sono conosciute come chinju no mori.
Ma cosa significa chinju no mori?
Analizziamo l’etimologia di questo termine:
- Chinju (鎮守) si riferisce alla divinità shintoista (kami) o spirito protettore della foresta.
- No (の) è la particella possessiva giapponese, può essere tradotta come “di”.
- Mori (森) significa “foresta” o “bosco”.
Mettendo tutto insieme, la parola “chinju no mori” si riferisce a una foresta sacra nei pressi di un santuario shintoista protetto dai kami ospitati dagli alberi circostanti.
Cosa distingue le sacre foreste shintoiste dalle foreste comuni?
La presenza di una foresta sacra shintoista viene visibilmente marcata da un portale torii posto all’entrata d’accesso principale dell’area designata come venerabile. La posizione strategica del gate porterà i visitatori che lo attraversano a sentirsi naturalmente invitati a pregare rivolti verso la foresta, in direzione dell’edificio del santuario.
Non si tratta di un fenomeno nuovo: i caratteristici paesaggi naturali del Giappone come foreste maestose, montagne (ad esempio il monte Fuji) e massi giganteschi sono stati oggetti di culto prima ancora dell’introduzione del buddismo nel VI secolo, quando l’arcipelago conosceva solo i culti autoctoni dello shintoismo.
Questo può dare l’idea di quanto sia millenaria l’esistenza e la venerazione dei chinju no mori in Giappone.
Il ruolo dei chinju no mori nella credenza shintoista
I chinju no mori acquisiscono ancora più importanza se consideriamo che nell’antica religione shintoista, sono le foreste stesse a rappresentare i veri santuari e non gli edifici costruiti. Infatti, secondo la credenza, sono i chinju no mori che circondano i santuari shintoisti ad essere dimora degli spiriti dei kami.
Questi boschi sono protetti dalla comunità locale che a sua volta è sotto la protezione dei kami.
Tuttavia, è importante notare che sebbene i chinju no mori siano venerati come luoghi abitati dai kami, non sono gli alberi stessi ad essere adorati, ma i kami che vi risiedono. Questa distinzione riflette l’essenza dello shintoismo, dove la natura è protetta e rispettata come parte di una relazione reciproca con il divino.
Nello shintoismo moderno invece, le persone tendono ad adorare il santuario stesso, che include la sala principale e altre architetture shintoiste decorate con corde shimenawa.
Come accennato prima, nel kōshinto – la forma originale dello shintoismo – la natura stessa è considerata un oggetto di fede, inclusi spazi sacri o altari (himorogi), rocce sacre (iwakura), alberi sacri (kannabi) e ancora una volta, natura: foreste, montagne, boschi, mari, fiumi e altri luoghi speciali come barriere coralline e cascate.
Costruzione dei santuari shintoisti presso i chinju no mori
I santuari shintoisti venivano spesso costruiti al confine tra il mondo eterno e quello presente o in siti con rocce o pietre sacre.
Ad esempio, il santuario di Omiwa nella prefettura di Nara venera il Monte Miwa, che è considerato lo shintai*. Così come tanti altri santuari, non avendo un oggetto per shintai o un honden in cui ospitare il kami, delineano colline e foreste (o montagne) come oggetti sacri o kannabi, affidandosi all’antica forma dello shintoismo animista giapponese.
*Nello shintoismo, lo shintai (神体) è un oggetto fisico considerato sacro perché rappresenta o ospita un kami, una divinità o spirito. Il termine “shintai” significa letteralmente “corpo divino” e può riferirsi a vari oggetti, come specchi, spade, gioielli, pietre, alberi, montagne, o persino animali. Questi oggetti non sono adorati per la loro forma o materiale, ma per la presenza del kami che vi risiede.
Come le foreste chinju no mori del passato riuscirono a sfuggire alla deforestazione dello shintoismo di stato
Nel Giappone antico, esistevano molti chinju no mori nei rispettivi villaggi, finché un grande numero di santuari e foreste non fu distrutto secondo la politica di fusione dei santuari del 1906 emanata dal governo per limitare il suo sostegno finanziario a un santuario per villaggio.
Lo stato di quell’epoca decise di sostenere solo i santuari disposti a seguire le linee guida specifiche per il finanziamento e incoraggiò i santuari non finanziati a diventare partner dei santuari più grandi. Come risultato di questa iniziativa per consolidare le credenze shintoiste in pratiche approvate dallo stato, i 200.000 santuari del Giappone furono ridotti a 120.000 entro il 1914, consolidando il controllo sui santuari favorevoli all’interpretazione statale dello shintoismo.
Kumagusu Minakata (1867-1941, naturalista, biologo e folclorista) mostrò una peculiare sensibilità verso la distruzione delle foreste su larga scala che stava accadendo e avviò una campagna di conservazione della natura insieme al movimento contro lo shintoismo di stato.
Ad aumentare le motivazioni che spinsero il naturalista Minakata a prendere l’iniziativa di fermare quella che sarebbe stata una completa strage del territorio, fu il fatto che in quei chinju no mori che sarebbero stati tagliati e distrutti, viveva una varietà di muschi e muffe melmose autoctone sconosciute impressionante.
«Nelle foreste divine, dove nessuno ha tagliato alberi per più di 1000 anni, le interrelazioni tra diversi organismi sono strettamente collegate. Di recente, questo collegamento ha iniziato a essere studiato sotto il nome di “ecologia”». (Traduzione della lettera di Minakata a Takeji Kawamura, governatore della prefettura di Wakayama, Giappone, 19 novembre 1911).
Minakata fu così il primo a usare in Giappone la parola ecologia spiegando che tutti gli organismi vivono in un’interconnessione di vite. Per questa e altre ragioni, il naturalista giapponese sottolineò l’importanza della faccenda e si fece sostenitore della conservazione dei chinju no mori dal punto di vista ecologico. Inoltre, dal punto di vista etnologico, insistette sul fatto che la fede religiosa, la cultura e la tradizione sarebbero state distrutte insieme all’avvenuta deforestazione delle foreste sacre.
Il suo appello appassionato influenzò l’opinione pubblica e le fusioni dei santuari cessarono di essere promosse dopo che la Camera dei Pari decise che “le fusioni dei santuari sarebbero state inutili”. I chinju no mori riuscirono così a sfuggire alla deforestazione.
Poiché i chinju no mori vennero preservati, la loro vegetazione può essere considerata quella originale rimasta nella regione. Motivo per cui molti studiosi di silvicoltura hanno dimostrato interesse nella ricerca sulla vegetazione delle rispettive foreste.
Tuttavia, la familiarità e la riverenza verso i chinju no mori hanno cominciato a farsi più tenui; il loro numero è stato drasticamente ridotto e la loro flora e fauna è stata profondamente influenzata dal cambiamento ambientale del territorio durante il periodo di forte crescita economica giapponese degli anni ’50-’70.
Riflessioni sulla relazione tra saggezza shintoista e conservazione ambientale
La saggezza shintoista, che insegna che “i kami sono ovunque“, potrebbe estendersi a una preoccupazione non solo per i chinju no mori, ma per tutte le foreste, sia in Giappone che all’estero.
Anche se lo shintoismo tradizionale non offre insegnamenti sistematici come il buddismo o il cristianesimo, è radicato in una pratica comunitaria che promuove la collaborazione e l’armonia.
Non essendo una religione evangelica, lo shintoismo non mira a diffondere i suoi riti al di fuori del Giappone, ma si basa sulla consapevolezza individuale di ciò che interiormente si sente come giusto.
Nel corso dei secoli, le foreste chinju no mori hanno rappresentato la reciproca protezione tra i kami e la comunità umana: i kami proteggono la comunità e in cambio la comunità protegge i kami preservando l’habitat forestale. Questa saggezza è radicata nella pratica tradizionale e non in una dottrina scritta, riflettendo un profondo rispetto per l’ambiente e una responsabilità condivisa tra l’umano e il divino.
Sebbene le aree boschive siano diminuite a livello globale, in Giappone vengono coltivate più foreste di quelle che vengono abbattute.
La presenza di chinju no mori in Giappone ha contribuito in modo significativo agli sforzi di conservazione. Ad esempio, il santuario Okami di Osaka preserva 20 tipi di felci e 15 tipi di conchiglie, il che è notevole per un santuario in una città con una popolazione di quasi 20 milioni di persone.
Abbiamo visto che queste foreste sacre sono state utilizzate per educare alla biodiversità. Gli sforzi per proteggere la sacralità dei chinju no mori hanno portato a nuove iniziative di conservazione che proteggono la natura diversificata che circonda i santuari.
Ma indipendentemente da dove ci si trovi nel mondo, possiamo trarre insegnamenti preziosi dalla visione shintoista della natura. Non è necessario essere shintoisti per riconoscere e onorare la sacralità dell’ambiente: adottare un atteggiamento di rispetto e cura verso la natura ispirato dalla saggezza shintoista, può contribuire a preservare il nostro mondo per le generazioni future.
Ogni foresta, ogni angolo di natura, può diventare un luogo di riflessione e rispetto se accettiamo il principio che tutto ciò che ci circonda merita attenzione e protezione.
Fonte Immagine in evidenza: Archivio personale