François Villon: biografia e opere del primo poeta maledetto
François Villon è una delle figure più enigmatiche e affascinanti della letteratura francese, un poeta attivo nel turbolento XV secolo. La sua figura, avvolta nel mistero e segnata da una vita dissoluta, lo ha consacrato come il primo, vero poeta maledetto. Nonostante gli studi critici, tra cui la biografia di Jean Favier, la sua esistenza rimane frammentaria, un mosaico di crimini, fughe e versi immortali. La data di nascita è incerta, 1431 o 1432, e quella di morte sconosciuta, poiché di lui si persero le tracce dopo l’8 gennaio 1463, quando lasciò Parigi per sfuggire a una condanna a morte commutata in esilio.
François Villon: una biografia tra poesia, crimine ed esilio
Gli studi a Parigi e il primo omicidio
Nato François de Montcorbier o des Loges, venne affidato poco dopo la nascita a mastro Guillaume de Villon, cappellano da cui prese il cognome che lo rese celebre. Grazie al suo tutore, studiò lettere presso la prestigiosa Università di Parigi. La sua vita prese una piega drammatica la sera del 5 giugno 1455, quando uccise un prete durante una rissa. Sebbene l’omicidio fosse probabilmente accidentale, Villon fuggì, nascondendosi per sette mesi lontano dalla capitale. Tornò solo dopo aver ottenuto il condono, ma la sua reputazione era ormai compromessa. Abbandonata la vita agiata, iniziò a frequentare le taverne e il mondo della malavita parigina.
Il furto, la prigionia e la condanna a morte
Il giorno di Natale del 1456, dopo un audace furto al Collège de Navarre, François Villon lasciò di nuovo Parigi. Iniziò un lungo peregrinare per la Francia, trovando brevemente rifugio alla corte di Carlo d’Orleans. La sua vita fu un susseguirsi di arresti e prigionia. Nel 1461, incarcerato a Meung-sur-Loire, venne graziato grazie a un’amnistia concessa dal nuovo sovrano Luigi XI. Tornato a Parigi, la sua vita dissoluta continuò: nel 1462 ferì in una rissa Maître Ferrebouc, un influente notaio, e venne condannato a morte per impiccagione. Fu durante l’attesa dell’esecuzione che compose il suo verso più celebre. Il 5 gennaio 1463, il Parlamento tramutò la pena in un esilio decennale. Tre giorni dopo, lasciò la città per sempre, scomparendo dalla storia.
Le opere di François Villon: il testamento e la ballata degli impiccati
La poesia di François Villon è rivoluzionaria perché si allontana dai temi cortesi e idealizzati del suo tempo per abbracciare un realismo crudo e personale. La sua opera principale, Il Testamento (1461), è un capolavoro di quasi duemila versi. Strutturata come un finto testamento, è in realtà un’opera autobiografica, un bilancio amaro e ironico della propria vita. Tra le ottave, Villon inserisce ballate dedicate agli amici, ai nemici, alle donne amate e perdute, riflettendo sulla morte, il tempo che fugge, la malattia e il pentimento. All’interno di quest’opera è contenuto il suo componimento più potente, La ballata degli impiccati, scritta mentre attendeva la morte. In questi versi agghiaccianti, il poeta immagina se stesso e i suoi compagni già appesi al patibolo, con i corpi in decomposizione, e si appella alla pietà dei vivi. È una meditazione straordinaria sulla morte e sulla fratellanza umana nella sofferenza.
L’eredità di François Villon: un’ispirazione per poeti e libertini
La fama di François Villon si consolidò nel XVIII secolo, quando l’epoca romantica lo elesse a precursore, attribuendogli l’etichetta di primo poeta maledetto. A differenza dei poeti di corte, Villon parlava della strada, della fame, del crimine e della morte con una sincerità brutale. Fu fonte d’ispirazione per François Rabelais, che lo inserì in Pantagruel e Gargantua, e per una moltitudine di autori francesi dell’Ottocento come Victor Hugo, Arthur Rimbaud, Charles Baudelaire e Paul Verlaine. La sua influenza arrivò fino in Giappone: Akutagawa Ryūnosuke si ispirò a lui per Aru Ahō no Isshō (Vita di uno stolto), mentre Dazai Osamu lo considerava il Burai (il libertino) per eccellenza, dedicandogli il racconto Viyon no Tsuma (La moglie di Villon). La sua opera continua a vivere, testimonianza immortale di un talento che seppe trovare la bellezza nel fango e la poesia nell’abisso.
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