Chi sono i nativi americani, storia di un popolo

Chi sono i nativi americani, storia di un popolo

Estese praterie, danze tribali, enormi copricapi ornati con piume d’uccello, lunghe ed enormi pipe fumate all’interno di tende. Questo e molto altro ci viene in mente quando sentiamo parlare degli Indiani d’America, noti anche come “nativi americani”.

L’immaginario collettivo ha contribuito all’affermazione di un’immagine standard del nativo americano: quella di un uomo dalla carnagione rossastra, i capelli lunghi raccolti in trecce, che si cimenta in danze attorno al fuoco e dedito alla guerra e al collezionare scalpi di uomini bianchi (i famosi “visi pallidi”) e di guerrieri di tribù rivali che avevano la sfortuna di cadere loro prigionieri.

Pur essendoci un fondo di verità in quanto detto, è assolutamente sbagliato liquidare il popolo degli Indiani d’America come selvaggi estranei alla civiltà. La storia di questo popolo è stata segnata dai drammatici avvenimenti scaturiti dall’incontro con l’uomo bianco, che non ha esitato ad usare la violenza per sottrarre i territori a loro appartenenti.

Chi sono i nativi americani: Dalle origini a Cristoforo Colombo

I nativi americani giunsero dall’Asia in piccoli gruppi 35 milioni di anni fa, attraversando lo stretto di Bering ancora non sommerso dalle acque e che collegava la Siberia all’Alaska. Tramite questa via gli Indiani giunsero dapprima in Canada e poi in America del Nord, espandendosi in seguito nelle terre di quella centrale e meridionale. A favore di questa tesi vi sarebbero le analisi del DNA compiute dal professor Eske Willersley sui resti di uno scheletro umano trovato proprio in Alaska.

In quelle zone gli Indiani d’America vissero sviluppando una civiltà dedita alla caccia, all’agricoltura, alla pesca e al commercio, senza avere contatti con altre civiltà. L’unica eccezione è rappresentata dai Vichinghi i quali, attorno all’anno 1000, tentarono di insediarsi nel Nord America senza successo.

Tutto cambiò nel 1492, con il viaggio di Cristoforo Colombo. Come è noto il navigatore genovese circumnavigò l’Oceano Atlantico per raggiungere le Indie, ma finì per arrivare nell’odierna Repubblica Dominicana. Egli era comunque convinto di essere arrivato nelle Indie orientali e incontrando per la prima volta gli abitanti del luogo li chiamò “Indiani”. Da qui il termine “Indiani d’America”. Cinque anni dopo Giovanni Caboto raggiunse con una nave inglese il Canada e per le popolazioni locali coniò un termine che in seguito verrà usato per identificare tutte le tribù di Indiani d’America: “Pellirossa“, derivato dall’usanza che i guerrieri locali avevano di tingersi il viso di ocra rossa prima della battaglia.

I primi contatti con l’uomo bianco dei nativi americani 

I viaggi di Colombo e Caboto avrebbero cambiato per sempre il mondo degli Indiani d’America. A partire dal XV infatti la voglia di aprire nuove rotte commerciali, il desiderio delle monarchie europee di possedere pezzi di terra in quello che venne ribattezzato come “Nuovo Mondo” e la necessità avvertita dalla chiesa di evangelizzare uomini e donne “barbari” portarono all’inevitabile scontro/incontro tra i nativi americani e l’uomo bianco.

L’America del Nord vide l’arrivo di inglesi e di francesi che contendevano alle tribù locali il commercio delle pellicce, la cui domanda era molto alta in Europa. Nel 1607 una spedizione inglese portò alla formazione del primo insediamento britannico in Nord America, l’attuale stato della Virginia. Lì fu fondato Jamestown, il primo insediamento di coloni britannici e in quello stesso luogo viveva una comunità di nativi Powhatan la cui rappresentate più celebre è Matoaka, passata alla storia come Pocahontas (nomignolo che in lingua nativa significa “bambina viziata” o anche “piccola svergognata”). Ella fu anche la prima indigena a sposare un uomo bianco, il coltivatore di tabacco John Rofle. Egli convinse il capo Powhatan a portarla con sé a Londra, dove cambiò nome in Rebecca e visse come una donna inglese ricevendo il battesimo. Naturalmente questa vicenda fu usata come mera arma propagandistica, per dimostrare l’esistenza di rapporti pacifici tra gli Indiani d’America e i coloni inglesi.

XIX e XX secolo: la spinta verso ovest e il genocidio degli Indiani d’America

Mentre i conquistadores spagnoli e francesi si concentrarono rispettivamente nell’America centrale/meridionale e nelle regioni del Canada, agli inizi del ‘700 i territori dell’America che si affacciavano sull’Oceano Atlantico formavano le 13 colonie (New York, South e North Carolina, Virginia, New Jersey…) che nel 1776 vennero dichiarate indipendenti dalla Corona Inglese e formarono il primo abbozzo dei moderni Stati Uniti d’America. In seguitò iniziò la spinta verso ovest, il famoso Far West, con cui i pionieri di quelle colonie si spinsero alla conquista di quelle terre del Nord America che si affacciavano verso l’Oceano Pacifico e che erano abitate da tribù di Indiani d’America: Cheyenne, Sioux, Apache, Navajo, Arapaho, solo per citare le più note.

Se all’inizio alcune di queste tribù non dettero enorme peso alla cosa, dato che nella loro cultura la terra era un bene da condividere con chiunque e il concetto di proprietà privata non esisteva, molte altre intuirono il pericolo rappresentato dalla presenza dell’uomo bianco. Furono soprattutto gli Apache e i Sioux ad opporsi strenuamente alla spinta aggressiva dei coloni, i quali risposero con ingenti massacri e atti infidi come l’Indian removal act, firmato dal presidente Andrew Jackson e consistente nella deportazione dei nativi dalle loro terre d’origine.

Si passò poi ai massacri veri e propri, molti e sistematici: il 28 dicembre 1862 trenta capi Sioux furono catturati e giustiziati dai generali americani, facendogli lo scalpo (usanza che verrà presa anche dagli Indiani d’America) ed esponendo i loro cadaveri. Due anni dopo, in piena Guerra di Secessione, avvenne il tristemente noto Massacro di Sand Creek: 600 nativi Cheyenne e Arapaho, tra cui donne e bambini che abitavano i territori attuali del Colorado in cui scorre il fiume Big Sandy Creek, furono trucidati senza pietà da 700 soldati di una milizia comandata dal colonnello John Civington in barba ai trattati di pace stipulati firmati con i capi tribù locali.

Gli Indiani d’America però non restarono fermi a guardare e continuarono la loro guerra contro quelli che erano gli Americani. La battaglia più importante è quella combattuta a Little Big Horn, in Montana, nel 1876. Gli sforzi congiunti di Sioux, Cheyenne e Arapaho con a capo i leggendari Toro Seduto e Cavallo Pazzo respinsero l’attacco del reggimento della settima cavalleria guidato dal generale George Armstrong Custer. Ciò tuttavia non bastò e gli Indiani d’America, come è storia nota, subirono un genocidio tale da ridurre la loro popolazione. Ai sopravvissuti il destino riservava la riduzione in schiavitù o in fenomeni da baraccone come accadde a Toro Seduto, che divenne una semplice macchietta per il Buffalo Bill’s Wild West. La relegazione in quelle che sono le “riserve indiane” e gli immancabili fenomeni di razzismo rappresentano il triste epilogo degli Indiani d’America, ancora presenti ai giorni nostri.

Usi, costumi e religione dei nativi americani 

Come detto in precedenza gli Indiani d’America praticavano un’economia basata soprattutto sull’agricoltura, sull’allevamento e sulla caccia. Coltivavano mais, zucche, fagioli, patate, zucchero di canna e riso. Gli animali allevati e cacciati erano soprattutto tacchini, bisonti e cervi, ma sembra che in passato alcune tribù si nutrissero anche di carne di cane. L’uso dei cavalli venne introdotto dagli spagnoli nel XV secolo.

Data proprio la diversità di ogni tribù non esiste un disegno della società uguale e identico per tutti, dato che varia da regione a regione. Ad esempio la società dei Sioux era retta dai “Sette fuochi del Consiglio”, composta da sette raggruppamenti che discutevano sulle decisioni da prendere, mentre quella degli Apache era costituita prevalentemente da bande e il concetto stesso di tribù non esisteva. Lo stesso discorso riguarda la religione anche se, in questo caso, i vari credi degli Indiani d’America presentano molti elementi in comune: uno su tutti lo spiritismo, l’idea che la terra e ogni elemento della natura siano tutte collegate ad un “Grande Spirito”, ma anche la lettura dei sogni, le danze tribali, i digiuni e le incarnazioni delle divinità in animali sacri, questi ultimi immortalati nei celeberrimi totem.

Elemento comune agli Indiani d’America dovevano invece essere le armi usate in battaglia: lance, archi con le frecce, coltelli, mazze da guerra e bastoni ricavati dalle ossa degli animali. Dal 1860 entrarono nel loro armamentario anche le armi da fuoco, in seguito al contatto con i soldati americani: fucili, moschetti e carabine. Dal contatto con gli inglesi gli Indiani d’America adottarono l’usanza di strappare lo scalpo dei nemici abbattuti, a scopo intimidatorio.

Gli Indiani d’America nella cultura popolare

Come già detto, gli Indiani d’America sono entrati nel nostro immaginario collettivo, dapprima venendo esibiti ad inizio secolo come attrazioni per il pubblico “civilizzato” e poi grazie anche a media come il cinema, i videogiochi, i fumetti e la musica.

Proprio il cinema ha contribuito a creare un’immagine mostruosa e selvaggia dei nativi americani, personaggi ricorrenti ovviamente in gran parte dei film western. Nel pieno di una visione romantica e ottimista della spinta verso ovest dei pionieri americani John Ford ha quasi sempre designato gli Indiani d’America come personaggi negativi, ignoranti di ogni regola che non riguardino la barbarie e la violenza. Lo si vede in Ombre Rosse (1939) con i nativi che cercano di abbattere la diligenza dei protagonisti che attraversa il deserto e in Sentieri Selvaggi (1956), dove il capo Comache mostra a John Wayne gli scalpi dei suoi nemici. Tutto cambia tra gli anni ’60 e gli anni ’70 quando il cinema americano, imbevuto di rinnovamento interno e di contestazioni hippie, mostra il lato marcio e nascosto di quell’epoca celebrata con elogi ipocriti. Nasce il western revisionista con Soldato Blu e Piccolo grande uomo, L’ultimo dei Mohicani e Balla coi Lupi.

E se anche all’interno dei fumetti sono comparsi esempi di Indiani d’America amici di uomini bianchi, come in Tex Willer, la musica non può fare a meno di ricordare la sofferenza perpetuata ai danni di questo popolo. Lo sapeva bene Fabrizio De André quando nel 1981 scrisse Fiume Sand Creek, canzone ispirata proprio al massacro del 1864 (anche se in realtà egli si confonde con un altro massacro, quello di Washita). Le parole del cantautore genovese, accompagnate da suoni tribali, ci fanno ben percepire il dramma vissuto per anni dai nativi americani  e che ancora continuano a subire per problemi legati alla presunta inferiorità di una razza alla quale è legittimo sottrarre tutto: terre, beni, vita e dignità.

«Chiusi gli occhi per tre volte, mi ritrovai ancora li’
chiesi a mio nonno:”E’ solo un sogno?”, mio nonno disse “Si'”,
a volte i pesci cantano nel letto del Sand Creek»

[Fonte immagine copertina per l’articolo “Chi sono i nativi americani, storia di un popolo”: https://pixabay.com/it/illustrations/schizzo-ragazza-natale-2166398/]

A proposito di Ciro Gianluigi Barbato

Classe 1991, diploma di liceo classico, laurea triennale in lettere moderne e magistrale in filologia moderna. Ha scritto per "Il Ritaglio" e "La Cooltura" e da cinque anni scrive per "Eroica". Ama la letteratura, il cinema, l'arte, la musica, il teatro, i fumetti e le serie tv in ogni loro forma, accademica e nerd/pop. Si dice che preferisca dire ciò che pensa con la scrittura in luogo della voce, ma non si hanno prove a riguardo.

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