Pomona, dea romana della frutta: la storia del suo culto e della sua fortuna

Pomona, dea romana della frutta: la storia del suo culto e della sua fortuna

Chi è Pomona, l’antica dea romana della frutta?

Il nome di Pomona sembra quasi parlare, esprimersi e richiamare la visione di un frutto rubicondo, che rotola via da un banchetto di divinità fino a scivolare tra i comuni mortali.
Patrona pomorum, signora dei frutti, Pomona è l’antichissima divinità romana protettrice non solo dei frutti da raccogliere sugli alberi, ma anche delle due coltivazioni simbolo della macchia mediterranea, la vite e l’olivo.
Frutti e schiere di viti e olivi argentati sono i gioielli di Pomona, dea che è spesso raffigurata con i frutti e foglie intrecciate tra i capelli come una corona bucolica, mentre Ovidio   la immagina con una falce ben salda nella mano destra.
Il poeta Ausonio, invece, la raffigura come fiera protettrice del mese di settembre, quello in cui i frutti giungono a maturazione e in cui l’atmosfera è placida, tersa e non minata dall’eccessiva calura estiva.
Patrona di una stagione mitigata, così come mitigato e tiepido è stato il suo culto, secondo le fonti letterarie, filologiche e storiografiche.
Per lei non vi è mai stato nessun culto viscerale in grado di toccare l’apice del Pantheon, ma solo piccoli sprazzi di devozione e gratitudine, quasi a richiamare quella stessa devozione verso la natura che fruttifica.

Il culto di Pomona: il bosco sacro e il flàmine pomonale.

Al culto di Pomona era consacrato un vero e proprio locus amoenus, un bosco frondoso ricco di frescura e spiritualità, chiamato Pomonal, nei pressi dell’odierno Castel Porziano (oggi nei pressi della ventinovesima zona di Roma nell’Agro Romano, all’epoca ubicato a sud del XII miglio della via Ostiense): i suoi adepti, tra il silenzio e la pace di quel bosco mistico, omaggiavano la fertilità del corpo di Pomona che si esprimeva germogliando attraverso ogni gemma e ogni frutto succoso.
Al culto della dea Pomona era preposto anche un flàmine.
Che cosa era un flàmine? Vi è da premettere che, nella società dell’antica Roma, vi era una fitta gerarchia di istituti religiosi, dal pontefice massimo fino ad altre cariche minori, ognuna con un proprio compito e una specifica utilità, e ognuna di esse era irrinunciabile e necessaria come tanti piccoli ingranaggi di un meccanismo sociale ben oliato e perfettamente funzionante.
Vi erano gli aruspici e gli àuguri, il cui compito era quello di interpretare la volontà delle divinità ispezionando le interiora degli animali o scrutando meticolosamente il volo degli uccelli, e poi c’era la figura del flàmine.
Come si potrebbe evincere dal nome, (dal latino flamen, cioè accenditore del fuoco sull’ara dei sacrifici), il flàmine era un sacerdote che aveva il compito di prestarsi al culto di una specifica divinità, di cui celebrava la festività e i riti.
Per Pomona era previsto un flàmine minore, chiamato flàmine pomonale, che era purtroppo il meno importante di tutti nell’ambito nell’ordo sacerdotum.
Non molti altari avranno bruciato per Pomona, e nemmeno molte feste avranno allietato i suoi fedeli, perché non ci sono giunte notizie di Pomonalia, feste in suo onore, né dalle fonti classiche né dai calendari antichi.

Il filologo classico tedesco Georg Wissowa , in merito a una presunta festività dedicata a Pomona, ha ipotizzato non cadesse in una data fissa, ma che fosse stabilita dai momenti di maggiore fertilità.

La tradizione latina di Pomona, dea romana della frutta: moglie di Pico, che per lei respinse Circe, o amante di Vertumno?

La tradizione latina ricorda la dea romana della frutta come moglie del re Pico, la cui storia è tramandata da Ovidio e Virgilio, rispettivamente nelle Metamorfosi e nell’Eneide.
Pico sarebbe stato uno dei primi re del Lazio, figlio di Saturno e Feronia: fondò e regnò su Alba Longa, e fondò anche la città di Laurentum, poi scomparsa.
Durante una battuta di caccia sul monte Circeo, Pico incontrò la maga Circe, che si invaghì immediatamente di lui, ma Pico la rifiutò perché le preferì Pomona.
Circe si vendicò trasformandolo in un picchio, animale sacro al dio Marte, e lo cristallizzò per sempre nella leggenda e nel reticolo del suo nome, anch’esso parlante come quello di Pomona.
Altre versioni dipingono Pico come un dio rurale venerato specialmente nel Piceno e in Umbria, padre di Fauno e dotato di poteri oracolari e profetici, in virtù della sua camaleontica capacità di mutare forma e trasformarsi in un picchio verde a suo piacimento. Alcune fonti lo vogliono innamorato della ninfa Canente, ma la tradizione latina lo raffigura innamorato della dea romana della frutta.
Ovidio sostiene che la dea sarebbe stata importunata dai Satiri e da varie divinità boschive, ma soltanto Vertumno l’avrebbe amata sul serio, anche se gli storici moderni hanno bollato questa versione ovidiana come una pura invenzione letteraria, germinata unicamente dal suo estro poetico e nata per un meccanismo di analogia.
Sì, perchè Vertumno era un dio davvero molto simile a Pomona: di origine etrusca e protettore di Volsinii (oggi Bolsena), Vertumno incarnava la quintessenza del mutamento stagionale e gli si attribuivano la capacità e il talento di trasformarsi in tutte le forme che voleva (vertere è un verbo latino che vuol indicare appunto il cambiamento).
Alcuni autori classici narrano addirittura di un astuto trucco di Vertumno, che avrebbe indossato abiti femminili per avvicinare la desiderata Pomona: versione adottata anche da alcuni artisti ottocenteschi, che raffigureranno Vertumno vestito appunto da donna.
Vertumno, però, non fu di certo l’unico dio ad avere in comune con Pomona i frutti e la natura: sembra che presso altri popoli italici siano state omaggiate e venerate divinità simili alla dea.
Presso i Sabini è attestato il dio Poemonio, mentre presso gli Umbri Pomo o Pomonus, citato nelle Tavole di Gubbio.

Dopo l’età classica: Pomona nel Medioevo, nel Rinascimento e nell’età contemporanea

Il culto di Pomona rimase taciuto durante il Medioevo, che vide un progressivo silenzio nei confronti della dea, poco studiata e approfondita.
Fu durante il Rinascimento che la dea romana della frutta tornò a nuova rifioritura, inaugurando una stagione fortuna e fertile per il suo mito: numerose raffigurazioni pittoriche la omaggiarono e la raffigurarono, cogliendo il suo lato umano, femminile e delicato.
La Pomona del Rinascimento è smitizzata e liberata dall’oleografia nebulosa del Pantheon, è una giovane donna, coronata di rose e con dei frutti sparsi liberamente sulle vesti e sul grembo,  o recante in mano una cornucopia traboccante di primizie.
I pittori  che la raffigurarono sono numerosi, da Hendrick Goltzius (1613) a Caspar Netscher  (1681), senza dimenticare gli affreschi del Pontormo nella villa Medici di Poggio a Caiano (1521) e di Luca Giordano a Palazzo Medici-Riccardi di Firenze (1683).
In età contemporanea, nel 1989, è stata segnalata in Lunigiana il ritrovamento straordinario di una stele dedicata alla dea romana della frutta, sulla cui autenticità e datazioni soni però sorti alcuni dubbi, perché potrebbe essere stata realizzata in età rinascimentale, escludendo quindi una sua datazione risalente all’età classica.

Fonte immagine per l’articolo Pomona, dea romana della frutta: la storia del suo culto e della sua fortuna: Wikipedia

A proposito di Monica Acito

Monica Acito nasce il 3 giugno del 1993 in provincia di Salerno e inizia a scrivere sin dalle elementari per sopravvivere ad un Cilento selvatico e contraddittorio. Si diploma al liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania e inizia a pubblicare in varie antologie di racconti e a collaborare con giornali cartacei ed online. Si laurea in Lettere Moderne alla Federico II di Napoli e si iscrive alla magistrale in Filologia Moderna. Malata di letteratura in tutte le sue forme e ossessionata da Gabriel Garcia Marquez , ama vagabondare in giro per il mondo alla ricerca di quel racconto che non è ancora stato scritto.

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