I ragazzi che si amano di Gabriele Lavia al Teatro Nuovo

I ragazzi che si amano

Una panchina verde, lampioni, qualche foglia morta, un tavolo con dei fiori e qualche sedia. Un uomo vestito di grigio, con un impermeabile e un cappello, in mano una Gauloise “papier mais”. Parigi, deve essere Parigi. Le parole dell’uomo, i suoi versi, ci riportano nell’atmosfera magica d’una sera parigina, l’ambientazione tipica di una delle più celebri poesie d’amore. Ma no, l’uomo rompe l’incanto. Siamo a teatro, precisamente al Teatro Nuovo di Napoli; l’attore e sceneggiatore è Gabriele Lavia, che presenta il suo recital ispirato al beneamato poeta Jacques Prevért intitolato I ragazzi che si amano (in scena fino all’8 marzo).

L’intento dell’autore è quello di rileggere i versi del poeta d’amore sotto una veste diversa; al centro le poesie, contorniate da una prosa che, come afferma lo stesso Lavia, si adatta di volta in volta al pubblico a cui si rivolge. L’amore la fa da padrone. Quello che però viene messo in rilievo è il contesto dal quale le poesie di Prevért partono. Una Parigi novecentesca ed esistenzialista, dove è il monumentale Jean-Paul Sartre a farla da padrone, che sembra fare a pugni con la semplicità delle poesie di Prevért; sarà sempre a lui che il poeta si rivolgerà. Lavia però sembra sollevare il velo del senso letterale delle sue poesie, per portare in auge qualcosa di più profondo e concreto, partendo da quella più famosa:

I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell’abbagliante splendore del loro primo amore.

Sotto il linguaggio semplice e spontaneo, apparentemente lontano dalla profondità esistenzialista, l’attore riscopre un mondo che affonda le sue radici nel mito fondatore della cultura occidentale: il platonico mito della caverna. Rileggendo la poesia d’amore, le immagini del mito sono tutte lì: la luce del giorno, le ombre proiettate, e poi un amore che si fa universale e che non smette di ripetere ciò che ha scoperto, anche se gli altri non lo comprendono.

Ma gli amanti sono altrove. E partendo dalla lingua originaria della poesia, “les enfants“, ingiustamente tradotto con “i ragazzi“, sembra riecheggiare il primo verso della Marsigliese, e allora non è traducibile con due entità circoscrivibili, né bambini né ragazzi, bensì l’umanità intera, che si ama, baciandosi in piedi, opponendosi alle tenebre, ultimo baluardo/barricata di fronte al buio dell’esistenza. E l’uomo è come la rosa, che vive e basta, senza un perché, per natura destinato a farsi attraversare dall’amore e dall’odio.

L’amore, declinato dall’attore attraverso i versi del poeta, è sempre universale e quotidiano, è la vita stessa, come nella poesia Canzone:

Che giorno siamo noi
Noi siamo tutti i giorni
Amica mia
Noi siamo tutta la vita
Amore mio
Noi ci amiamo e noi viviamo
Noi viviamo e noi ci amiamo
E noi non sappiamo che cosa è la vita
E noi non sappiamo che cosa è il giorno
E noi non sappiamo che cosa è l’amore.

Ma quello stesso amore, attraversando l’uomo, deve necessariamente adattarsi alle sue metamorfosi: i versi sono quelli di “Questo amore” e di “Per te amore mio“. E quel sentimento inebriante e magico è in grado di tramutarsi anche nel suo opposto; diviene solitudine, ma una solitudine diversa da quella espressa dalla Dickinson, che tocca le note dell’infinito. La solitudine per Prevért è concreta, è fatta di bicchieri pieni e stanze vuote, e di donne che chiudono nel palmo della propria mano tutta l’angoscia dell’esistere, di esistere da soli, nella poesia Prima colazione. La solitudine diventa violenza, perversione, maledizione, e, attraversando l’uomo in ogni senso e direzione, sembra quasi perdere i suoi connotati.

Un modo di sfuggire alla solitudine però c’è. La vera salvezza forse risiede nel ricordo, nel ricordarsi reciproco, e nella memoria.

Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte
Il primo per vederti tutto il viso
Il secondo per vederti gli occhi
L’ultimo per vedere la tua bocca
E tutto il buio per ricordarmi queste cose
Mentre ti stringo fra le braccia.

L’abbraccio è quello di un’assenza che si fa presenza solo nel ricordo, nella memoria salvifica dell’altro, e al contempo nell’accogliere l’altro. E nonostante la morte, nonostante il buio dell’esistenza, Prevért ci ricorda che a vincere è sempre la vita, e una porta da non chiudere a chiave.

Una rilettura appassionata e vivace quella di Gabriele Lavia, che incastona la poesia in uno scenario quotidiano e vivo, nel quale si intrecciano i ricordi di vita vissuta dell’autore e la storia legata al poeta, senza stridere, ma anzi abbracciandosi melodiosamente, come le note della canzone Les feuilles mortes che, come una dolce ninna nanna, fanno calare il sipario, lasciando negli occhi e nel cuore dello spettatore il sapore dolce amaro dell’ultimo bacio prima di andare via.

Carmen Alfano

Fonte immagine copertina: Ufficio Stampa

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A proposito di Carmen Alfano

Studio Filologia Moderna all'università degli studi di Napoli "Federico II". Scrivo per immergermi totalmente nella realtà, e leggo per vederci chiaro.

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