Il rito di Ingmar Bergman al Mercadante | Recensione

Il rito

Il 20 e il 21 giugno va in scena al teatro Mercadante Il rito, tratto dall’omonimo film televisivo di Ingmar Bergman del 1969. Adattamento e regia sono a cura di Alfonso Postiglione, la traduzione è di Gianluca Iumiento. In scena si esibiscono Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson), Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Giampiero Judica (Sebastian Fischer), Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann).

Lo spettacolo Il rito rende onore all’impeccabile scrittura drammaturgica di Ingmar Bergman, che lui stesso tendeva a sottovalutare: con una forma ironica di autocritica, affermava nei suoi scritti autobiografici che «il suo apporto più decisivo alla storia del teatro consiste nell’aver fatto sistematicamente installare dei bagni privati all’interno degli uffici a lui assegnati, per via dei problemi digestivi di cui soffriva».

Chiaramente nessuno ha mai dato credito a questa fandonia, a questa perversa patina di autoinganno, che perseguita l’artista e che, negli alti ingegni, diventa un tutt’uno con la creazione. Il rito è, non a caso, una dimostrazione emblematica del controverso rapporto che l’attore – e il creatore in genere – stabilisce con la propria arte: questo fardello immaginifico che apre mondi interiori e genera prigioni, che complicano il rapporto con l’esterno.

Il rito è uno e trino: il giudice è interno, il processo è nullo, la condanna aperta

Al centro della scena si apre Il rito: un giudice solo con se stesso, proietta su una parete-schermo i volti dei tre attori che dovrà interrogare. Si tratta di tre artisti di varietà che sono stati denunciati per la loro performance, considerata ambiguamente oscena, perché incompresa.

Solo nel suo studio, Abrahamsson dà inizio al suo rituale d’inchiesta – collettiva e, capiremo poi, individuale -, consulta documenti e ricerche attinenti alla vita passata dei tre attori sospetti. Il suo studio è una piccola gabbia, chiuso nel suo antico e polveroso mobilio, nell’austerità della legge, indiscutibile, ma pure labile, perché esercitata dagli uomini.

Abrahamsson è un uomo solitario, ha qualche buon amico e una pila di libri inestimabili, ma si logora nella certezza illusoria della sua coercitiva ragionevolezza, impostagli dal suo mestiere di giudice. Questo signore, dall’aria apparentemente distinta e fiera, è, in realtà, triste, sudicio, colpevole anch’egli. È un personaggio kafkiano, in quanto scisso, storto, ripiegato in sé stesso, e avvolto in quel particolare alone di polvere grigia che svolazza, senza mai depositarsi, nei romanzi di Kafka.

La sua vita abitudinaria e vuota è anch’essa Il rito di un individuo che soffre e non si trasforma, rinchiuso nel lavorio stancante dell’auto-inquisizione, perché fortemente giudicante nei confronti di se stesso. Le immagini che proietta altro non sono che tentativi di autoanalisi e autoriflessione, facce nelle quali si guarda attonito e sconfitto, si riconosce e si confonde.

Il giudice osserva i volti dei presunti colpevoli, su di loro si concentra, ispezionando ogni dettaglio dei loro tratti somatici, e, prima ancora di farli entrare nel suo microcosmo ordinato, intuisce già il caos che sta per prendere il sopravvento, lo spettro spaventoso al quale sta per aprire la porta.

«Entrate pure»: ecco che il palcoscenico si fa bianco, è il colore del candore o di un presagio di morte?

Tre figure vestite di bianco si dispongono sul palco, escono allo scoperto per farsi ammirare. I tre interpreti-fantasma sono il trio protagonista del numero che ha fatto scalpore, ma anche di un triangolo amoroso. Sono moglie, marito e amante. Sono tre anime coadiuvate in una sola: per piacere o per costrizione, per scelta volontaria o per ossequiosa devozione a un impellente bisogno artistico.

Si tolgono il mantello bianco – che gli concedeva un’aura incontaminata di purezza – e da attori si trasformano in uomini, pronti ad entrare nel minuscolo mondo, sopraelevato e a loro lontano, della burocrazia. Si insozzano anche loro di polvere, fanno mostra della loro rozzezza di comuni mortali.

Il primo confronto diretto con il giudice è uno svelamento. Chi sono realmente Thea Winkelmann, Hans Winkelmann e Sebastian Fischer? Cosa nasconde il loro passato? Dalle indagini del giudice viene fuori che hanno già avuto precedenti problemi con la legge, che hanno un conto in banca sproporzionato e depositato in Svizzera, che trascorrono gran parte dell’anno in tournée, per poi rifugiarsi, in un periodo di riposo, in una casa, tutti e tre, come fossero concatenati e inscindibili.

«I tre attori de Il rito – come evidenzia Aldo Serio, con uno sguardo acuto sul film di Bergman – rappresentano i tre aspetti dell’arte: il capocomico è la stanchezza, il fatalismo, la rassegnazione; l’attore giovane è l’istinto, il coraggio, la forza; la donna è il sesso liberato, il sentimento, la fiamma che scalda la creazione, la molla rituale dell’amore, cioè della fusione di tutti e tre gli elementi».

Nella scena successiva de Il rito, Sebastian e Thea si ritrovano, mezzi nudi, nella loro stanza, fatalmente tutta bianca, l’uno sull’altro, giocano, e fanno i capricci, impegnati in piccoli e rituali screzi tra amanti, ma il loro rapporto cela un’intesa più profonda, un’intima condivisione di un dolore comune, un’eterna insoddisfazione, che ha radici insondabili.

Sebastian e Thea si raccontano i loro sogni, lui piange perché crede di esser stato abbandonato, lei è guidata da un cavallo inaffidabile e imbizzarrito. Sebastian non riesce a soddisfarla sessualmente, ma ne è attratta. Thea è isterica e incontentabile, ma esercita il suo fascino magnetico su Sebastian, che è disperato quanto lei.

Ne Il rito, loro due, in particolare, sono gli artisti per antonomasia, i personaggi-simbolo del conflitto che si crea tra arte e vita: quel subbuglio inevitabile che la fantasia crea quando si scontra con la lordura del reale.

Costretti a fare i conti con la realtà – che si fa spazio nella sua forma più insidiosa e rigida, rappresentata dalla giustizia – si dimenano nel tentativo di mostrarsi intoccabili emotivamente, inarrivabili, esseri alieni, appartenenti a un’altra specie: quella eletta delle menti creative. È così facendo che, però, viene fuori il marcio, la faccia sporca e truccata che sopravvive oltre la scena, che li perseguita nel quotidiano, il rovescio dell’abito bianco.

Come un corpo triforme, i tre artisti hanno necessità l’uno dell’altro: quando si staccano e sono costretti a prestarsi all’interrogatorio individuale, rischiano di cedere. L’insetto romantico, che prende vita dall’unione dei loro corpi, finisce per crollare sulle proprie zampe, la metamorfosi si dissolve, e, come per magia, l’incanto svanisce, Il rito non può avere inizio.

Il primo che si sacrifica al martirio è Sebastian Fischer. Nel colloquio con Abrahamsson si scopre che il capocomico ha accoltellato un suo vecchio amico e collega, in seguito a una sciocca lite. Fischer si sente attaccato, il suo orgoglio di personaggio è ferito, sente ora il dolore dei colpi inferti alla persona in carne e ossa, che pure dimora dentro di lui. Si difende controbattendo con altrettanta crudeltà alle parole del giudice. Con la sua sensibilità istrionica riesce a cogliere in profondità le fragilità che affliggono il pover uomo.

Finisce per umiliarlo per l’odore cattivo che emana, a causa dei suoi problemi di sudorazione, per la sporcizia delle sue unghie, e la falsità della sua natura, per la sua posizione riprovevole e scomoda di vassallo della legge, piegato a esercitare, a sua volta, lo spietato vassallaggio.

Segue il faccia a faccia con Hans Winkelmann che si confessa, apre il suo cuore come se si trovasse di fronte al tribunale privato del suo passato, dei suoi rimpianti, delle sue scelte. Rivela il suo misero stato di umiliazione, a cui volontariamente si è condannato, stringendo questo patto trino e divino con due artisti folli, smarginati, usciti fuori dalla propria figura, di una sensibilità incontinente e capricciosa.

Si umilia, perché sa che, da questa prostrazione, può trarne vantaggio la Dea più insaziabile che possa esistere: l’Arte. In quanto devoto e ambizioso, dunque, Hans non si può sottrarre a questa venerazione urgente, anche a costo di annientare se stesso.

Il signor Winkelmann si congeda dal tetro studiolo, corrompendo il giudice con un’ingente somma, affinché risparmi la sensualissima, ma psicologicamente instabile, Thea, alla quale un tale interrogatorio avrebbe fatto esplodere i suoi neuroni. Il tentativo di corruzione si rivela ovviamente fallimentare.

Thea è agitata già la sera prima dell’incontro, dopo lo spettacolo, ancora con il volto impastrocchiato, piange e ride, è ubriaca e confusa, dispettosa e affettuosa nei confronti del marito. Sa di essere una Venere, sa di avere un potere magnetico sul compagno, lo esercita con crudeltà e spietatezza.

Al contempo, questa coltre che l’avvolge, sembra soffocarla e, nel camerino del teatro, urla aiuto: vuole uscire da questa prigione umida e inospitale, che è la scena, la finzione, la maschera cucita addosso come una seconda pelle.

Hans prova a consolarla, ma non può fare a meno di esprimere tutta la sua irritazione, di vomitarle in faccia il suo disagio: «sono stanco di noi, della nostra cosiddetta arte. Non siamo più pertinenti. La gente non ha più bisogno di noi, siamo superati». Odia Thea, eppure la ama, perché liberarsene equivarrebbe a rinunciare a una parte di sé, al suo lato primordiale, istintuale e infantile, al gioco di perversione e godimento, che è alla base dell’espressione artistica.

L’unità deve ricomporsi, le tre persone devono ritornare a essere una. Così Hans, che è l’unico che si autodefinisce normale, approfitta dei rari momenti di lucidità dei due compagni – protesi di sé , per farli tornare a ragionare, per riportarli con i piedi per terra. Cerca di afferrarli, fluttuanti in un mare di nebbia, ma attorno a loro è tutto indistinto, incolore, e non è possibile più riconoscere facce, strade ed edifici, tutto è già crollato, esploso ne Il rito apocalittico e astratto: resta il bianco del foglio, l’inventiva, il genio, la pazzia, la sregolatezza.

L’ultimo colloquio de Il rito è quello tra la fascinosa Thea e il giudice. Due personaggi in palese antitesi. La prima corre dietro a sapori proibiti, si offre come un frutto passionale e appetitoso, è fuoco che arde e si brucia. Il secondo è un uomo represso, che non ha mai ceduto al desiderio,  all’autocompiacimento, che conduce una vita che non ha scelto, fa un mestiere che non ama. Thea è ipersensibile e fragile, ma scaltra, e apertamente si racconta, scopre la sua carta: consegna ad Abrahamsson una lettera nella quale descrive se stessa: ilare e depressa, fedele e miscredente, tutto il contrario di tutto, un insieme di pulsioni irrequiete e sognanti.

Il giudice perde la pazienza, la insulta, è impossessato anche lui da quella crudeltà, che nella vita ha tanto temuto, che ha intaccato i principi della sua fede, che lo ha disilluso. Eppure la preghiera ancora lo libera dall’angoscia, nelle sere solitarie che trascorre nel suo studio.

Thea è, però, incorreggibile, con lei la bontà non funziona. Il giudice è costretto a diventare un mostro, anche lui, di fronte all’Arte camuffata da demonio in piena crisi epilettica.

Ne Il rito, un “primo piano” su Thea mostra tutta l’inquietudine della sua risata dianoetica. È un riso sordo, cupo, che ride di tutto ciò che è menzogna, di tutto quello in cui crede, e che, però, non è vero. Il suo ghigno è uno scorticamento dell’intelletto artistico, pieno di intellettualismi esasperati e decrepiti.

Dall’uso del grottesco per la costruzione del personaggio di Abrahamsson, al riso amaro di chi soffre e, infine, ride di se stesso, Il rito sembra avere anche un vago retrogusto pirandelliano.

Infine, i tre corpi proteiformi ritrovano il loro tedioso mistero, misto al no-senso catartico della loro rappresentazione, e si esibiscono privatamente nello studio del giudice. Rimettono sul volto le maschere – con i nasi lunghi di chi mente, nasi simili a falli in erezione di chi gode – e rivendicano il valore dell’Arte, che non si sottopone a giudizio, che è libera, che non ricerca né sintesi, né risoluzione, e non merita nessuna espiazione.

I tre attori, che sono come «cadaveri che cagano fiori», suscitano lo stupore e l’ammirazione del giudice, che assiste esterrefatto, e muore di crepacuore.

Attraverso Il rito, l’Arte prende il sopravvento, e, con il suo bianco accecante, annienta tutti i colori, così, chi ha provato a minacciarla, muore.

Fonte immagine: Ufficio Stampa

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l'università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna. Si nutre di libri e poesia. I viaggi più interessanti li fa davanti al grande schermo.

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