Il rito di Ingmar Bergman, al Teatro di Napoli | Recensione

Il rito di Ingmar Bergman, al Teatro di Napoli | Recensione

Un grande ritorno, questa volta al Teatro San Ferdinando

La stagione 2023/24 del Teatro di Napoli prosegue e presenta in scena Il rito di Ingmar Bergman, opera progettata da lui nel 1969 per la televisione, tradotta da Gianluca Iumiento, adattata e diretta da Alfonso Postiglione, con l’interpretazione di Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson), Alice Arcuri (Thea Winkelman), Giampiero Judica (Sebastian Fischer), Antonio Zavatteri (Hans Winkelman). Lo spettacolo è stato già presentato con successo nell’edizione 2023 del Campania Teatro Festival e questa volta approda al Teatro San Ferdinando di Napoli dal 27 febbraio al 3 marzo 2024.

Il rito di Ingmar Bergman: l’atto artistico tra destabilizzazione e verità

Ciò che colpisce subito a colpo d’occhio de Il rito di Ingmar Bergman, riadattato da Postiglione, è sicuramente la disposizione scenografica – le scene sono di Roberto Crea. In cima, come se fosse la vetta di una sacra croce, vi è lo studio del giudice Abrahmsson; mentre in basso, agiscono i “teatranti”, «sorta di clowns contemporanei d’avanguardia», quasi indemoniati dalla forza dionisiaca dell’arte. Infatti, poiché questi ultimi vengono denunciati per la loro pièce che, sottoforma di rito sacrificale, risulta oscena, la rappresentano proprio davanti al giudice, il quale inconsapevolmente ne diventa vittima offerta. E in tale trama che si articola tra il sacro ed il profano, lo spettacolo si riveste di un fitto strato simbolico.

Il rito di Ingmar Bergman per la stessa mano del suo autore-regista abbraccia chiaramente dei simboli appartenenti a una dimensione sacra. Ma è pur vero che va oltre scardinandola: se il giudice Abrahmsson pare identificarsi come un dio indiscusso, allo stesso tempo per questa sua stessa autorità risulta fortemente limitato. Allora, dall’altra parte, i “teatranti” ne dimostrano la componente tanto aberrante quanto profondamente umana, svelandone il carattere artificiale e ipocrita. Il mezzo, con cui si mette in azione quest’operazione di una rivelazione che di sacro ha solo uno strato superficiale, è l’arte.

Riportato in veste teatrale, Il rito di Ingmar Bergman offre la possibilità anche di riflettere sulla funzione dell’arte: la dicotomia tra il giudice ed i “teatranti” diventa metafora tra la censura e ciò che viene accusato di volgarità oscena. Pertanto, l’arte, offerta sottoforma di un rito destabilizzante, ha la potenzialità nonché l’importanza di spezzare quelle catene e di rivelare la nuda e cruda verità dell’essere umano.

Allora, Il rito di Ingmar Bergman, riproposto nella forma teatrale da Alfonso Postiglione, assume le sembianze di un vero e proprio rito che soltanto alla fine si rivela in quanto tale, ma che in realtà fin dall’inizio ingloba sia gli attori sulla scena sia il pubblico. Giocando molto sulla componente visiva – il disegno di luci, di Luigi Della Monica, la scenografia, ma anche i movimenti corporei degli attori – si ha da subito l’idea di quello che è un rito rivelatore, brutalmente vero dell’essenza umana.

Immagine di copertina: Ufficio Stampa

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A proposito di Francesca Hasson

Francesca Hasson è giornalista pubblicista, iscritta all’Albo dal 2023. Appassionata di cultura in tutte le sue declinazioni, unisce alla formazione umanistica una visione critica e sensibile della realtà artistica contemporanea. Dopo avere intrapreso gli studi in Letteratura Classica, avvia un percorso accademico presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II e consegue innanzitutto il titolo di laurea triennale in Lettere Moderne, con una tesi compilativa sull’Antigone in Letterature Comparate. Scelta simbolica di una disciplina con cui manifesta un’attenzione peculiare per l’arte, in particolare per il teatro, indagato nelle sue molteplici forme espressive. Prosegue gli studi con la laurea magistrale in Discipline della Musica e dello Spettacolo, discutendo una tesi di ricerca in Storia del Teatro dedicata a Salvatore De Muto, attore tra le ultime defunte testimonianze fondamentali della maschera di Pulcinella nel panorama teatrale partenopeo del Novecento. Durante questi anni di scrittura e di università, riscopre una passione viva per la ricerca e la critica, strumenti che considera non di giudizio definitivo ma di dialogo aperto. Collabora con il giornale online Eroica Fenice e con Quarta Parete, entrambi realtà che le servono da palestra e conoscenza. Inoltre, partecipa alla rivista Drammaturgia per l’Archivio Multimediale AMAtI dell’Università degli studi di Firenze, un progetto per il quale inserisce voci di testimonianze su attori storici e pubblica la propria tesi magistrale di ricerca. Carta e penna in mano, crede fortemente nel valore di questo tramite di smuovere confronti capaci di generare dubbi, stimolare riflessioni e innescare processi di consapevolezza. Un tipo di approccio che alimenta la sua scrittura e il suo sguardo sul mondo e che la orienta in una dimensione catartica di riconoscimento, di identità e di comprensione.

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