Rosso (John Logan) al Piccolo Bellini | Recensione

Rosso (John Logan) al Piccolo Bellini | Recensione

Rosso di John Logan arriva in scena al Piccolo Bellini dal 7 al 12 novembre. Lo spettacolo, tradotto da Matteo Colombo, per la regia di Francesco Frongia (curatore anche dei costumi e delle scene), prende forma attraverso il dialogo di due soli attori, che instancabilmente riescono a tenere viva la messinscena: Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni.

Il Piccolo Bellini si colora di Rosso, ma il nero della sala è emotivamente coinvolto

Rosso è una pièce teatrale ispirata alla biografia del pittore americano Mark Rothko. L’artista, tra i maestri dell’espressionismo astratto, dipinge immerso nel rosso, è imbevuto dalla testa ai piedi di questo colore sanguigno e passionale, e, tra guizzi di immaginazione e amara disillusione, manifesta il suo fare artistico.

Alla fine degli anni Cinquanta, gli viene commissionata la realizzazione di una serie di murali per il ristorante Four Seasons di New York, si tratta della più ricca commissione della storia dell’arte contemporanea.

Rosso è una personalissima forma di espressione creativa, che nasce da un impeto interno. «Rosso sangue, rosso atelier di Matisse, rosso culo di scimmia, rosso vita».

Rosso è, però, anche il colore del conflitto, dello scontro, della dialettica dal gusto bellicoso, della rivoluzione, che scorre dentro le vene di una generazione, che sente il dovere di ammazzare i padri, di superare il passato.

Ken, giovane apprendista, aspirante artista, lavora presso lo studio di Mark Rothko, che, con il suo atteggiamento burbero e schivo, non fa che trattarlo come un mero dipendente.

Rothko non crede nella gentilezza, odia «chi trova tutto carino e grazioso», lui è crudo e diretto, senza peli sulla lingua, ma anche estremamente frustrato e triste.

Il suo rosso è insozzato di nero, e questa è, forse, la sua peggiore condanna.

Rosso di John Logan è un incontro tra generazioni: Ken ha qualcosa da raccontare, Rothko utilizza, però, modi insoliti per spronarlo. Sa che «ogni pennellata è una tragedia», che nell’irrisolto, nell’impercettibile sfumatura di nero nel rosso, si nasconde il mistero dell’arte, che è dal connubio tra estrema precisione ed esitazione che viene fuori il misticismo.

Questa è un’arte che non deve piacere, che deve riuscire a impressionare. Le sue tele rosse necessitano di un tempio per essere ammirate, di una chiesa, ma il ristorante è un luogo di consumo, e non ci si nutre più di arte.

Quando loro erano giovani aspiranti artisti – racconta Rothko – non avevano bisogno né di mostre, né di gallerie, luoghi frequentati da predatori, insensibili magnati.

Rothko ha tremendamente bisogno di ricongiungersi con gli esseri umani.

Non appena entra nello studio, a Ken viene chiesto di osservare la tela con gli occhi di un uomo. Non c’è nessuna soluzione, solo una sensazione.

Ken non potrà mai diventare un vero pittore, non senza aver letto Jung, Freud e Nietzsche. Rothko è un personaggio gattopardesco, un intellettuale tardo, pietrificato nel tempo andato.

Dipinge perché il pennello possa illustrare quello che negli anni ha letto, quello che sa, i sentimenti che ha provato, e dai quali non si è mai ancora separato.

Fiero, giace come un contemplatore assorto e giudicante nella sua torre d’avorio.

Annegato in un mare di rosso, sguazza ansimante, senza, però, mai dubitare delle sue convinzioni: «a noi deve essere riconosciuto il merito di aver superato i cubisti». A lui interessa rimanere attaccato all’Es, avere fede nel dionisiaco, abbracciare l’inganno di una vitalità impetuosa e collerica, furiosamente sognante.

Il controllo di Apollo domina il pittore, e si esprime attraverso l’ossessione «di passare e ripassare i colori sulla tela, numerose volte». È una modalità di fare arte che lo pone lontano dalla natura astratta della corrente espressionista, di cui è uno dei principali esponenti. La spontaneità non lo caratterizza e, per questo, il suo Daimon soccombe.

L’Es è, invece, la possibilità di stendere un tappeto infinito di colore, le tele che sceglie di utilizzare sono, infatti, di dimensioni enormi. Mark Rothko non si può contenere. Il suo rosso è un’esplosione: pienezza di vuoto.

Le note gaudenti e deliranti, che accompagnano la percezione del rosso sono, però, interrotte da impreviste stonature, storture del suono, striduli richiami al reale: tutti ostacoli minacciosi per un cuore desiderante, che si presta all’ascolto, che impugna il suo pennello come un puntello, compiendo un gesto di resistenza.

Ecco che il mondo delle idee, la vita della mente si intromette tra le percezioni, crea una interferenza nella comunicazione tra arte ed esistenza, filtra il messaggio, interrompe il sentire.

In Rosso di John Logan, Rothko è un uomo che pensa, e che parla, tantissimo, eccessivamente, ininterrottamente. Lui si racconta, è protagonista di una narrazione, della cui veridicità si è ormai persuaso: il mondo non può accostarsi a un suo quadro, appunto perché, nel mondo, non c’è alcun superstite che abbia conservato sensibilità umana. Tutto è annichilito, Dio è morto, e anche l’uomo.

Ken, al contrario, ha sofferto, ha fatto esperienza del bianco, della scomparsa, del vuoto che ne consegue. Ken potrebbe avere il cuore ghiacciato, bianco candito e freddo, come la neve. Lui ha perso i suoi genitori: li ha visti morti uccisi nel loro letto, quando era bambino. Ha familiarità con il rosso, eppure non lo frequenta troppo.

Ken prosegue in direzione del cambiamento, la sua anima compie il suo percorso trasformativo, di evoluzione artistica e personale. Lui ha molto ancora da imparare, ma Rothko può, a sua volta, servirsi di lui, per liberarsi da quell’apollineo, che sa di morte, e di materialismo, di interesse economico, disillusione, ipocrisia e avidità.

Rothko potrebbe passare da una profonda delusione a un rinnovamento: morire, suicidarsi, per ricomporsi diverso, e aperto all’innovazione estetica e interiore.

I due non lo sanno, ma sono destinati alla stessa tela. Prendono in mano il pennello, e – disperatamente, rabbiosamente, su e giù per i bordi, senza lasciare alcuno spazio – colorano il bianco di rosso: Ken per rivendicare i suoi genitori, Rothko per mettere a tacere la sua paura della Fine.

Il palcoscenico del Piccolo Bellini si trasforma, così, in una galleria d’arte, in cui possiamo partecipare a un’esperienza sensoriale. Dal buio nero della sala, si può sentire l’odore forte della vernice, il rosso squarcia la tela, quel che rimane è un movimento agitato di braccia, che non sanno dove andare, e rapidamente si dimenano, per non affondare.

Apollineo e dionisiaco sono di nuovo insieme, e non hanno nessuna intenzione di accordarsi, e grazie a Dio, altrimenti l’arte ne soffrirebbe.

Il limite della tela è già stato superato, rotta è stata ogni sovrastruttura di rapporto convenzionale, superata per sempre.

Rothko non vuole essere né un padre, né un maestro per Ken, ma ancora una volta subentra Dioniso, e il petto non può non aprirsi, l’ira trasformarsi in saggezza, la disperazione creare bellezza, e lascia andare l’allievo, si lascia andare.

Ken viene licenziato. Rothko non lo vuole più vedere buttato lì dentro, la sua vita è altrove, fuori da quell’inferno rosso, lui è destinato a trovare da solo la sua personalissima espressione.

Il deserto rosso, dopo aver incontrato Ken, non è più pura solitudine, amara incomprensione, «senso di inadeguatezza pesato sul piatto della bilancia», ma è una distesa immensa di pittura, sulla quale rotolare, e poi stendersi insieme a braccia aperte.

Se non c’è più nessun Dio in cui credere, l’uomo non può conoscere altra forma di trascendenza che il vivificarsi di un quadro.

Così se lo strumento è una finestra per affacciarsi sull’Oltre, è anche un concentrato immobile di disperazione.

L’arte di Rothko traduce la bramosia d’Altro, il desiderio di smaterializzarsi, di farsi colore, puro e semplice, e per questo indecifrabile.

Questa ambizione, però, non si concretizzerà mai, perché è solo la mano di un uomo quella che si arrampica, afferra il colore, e avvolge la tela, in un vano tentativo d’ascesi.

Questa tensione tra Es e Super-io, apollineo e dionisiaco, tiene in vita la tragedia, e, senza tragedia non c’è arte, non c’è poesia.

Fonte immagine per Rosso (John Logan): Archivio personale 

A proposito di Chiara Aloia

Chiara Aloia nasce a Formia nel 1999. Laureata in Lettere moderne presso l'università Federico II di Napoli, è attualmente studentessa di Filologia moderna. Si nutre di libri e poesia. I viaggi più interessanti li fa davanti al grande schermo.

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