Torre del Greco: città simbolo di distruzione e rinascita

Torre del Greco: città simbolo di distruzione e rinascita

Tra le rigogliose pendici del Vesuvio ed il golfo napoletano si staglia la città di Torre del Greco, anticamente chiamata Turris Octava poiché distante otto miglia romane dalla città di Napoli, un nome modificato in seguito per la peculiare produzione di vino ricavato da un tipo di uva greca.

Una città che nel corso dei secoli è divenuta simbolo di rinascita, fragile ma al contempo indistruttibile, capace di rialzare sempre la testa dopo avversità di ogni genere e che con la sua invidiabile bellezza ha sedotto e accolto uno dei poeti più importanti della letteratura italiana: Giacomo Leopardi.

Torre del Greco nasce nel calore dell’abbraccio di uno dei vulcani più pericolosi al mondo, lo “Sterminator Vesevo“, come cita il poeta nel suo celeberrimo componimento “La Ginestra” scritto nel 1836 presso Villa Ferrigni (attualmente chiamata Villa delle Ginestre), esaltando la semplicità ed il buon profumo del “fiore del deserto”, che senza opporre resistenza china il capo sotto il peso della distruzione, ma sempre pronta a germogliare invincibile nella sua delicatezza.
Sebbene le innumerevoli eruzioni del Vesuvio abbiano di volta in volta annientato il suolo, i Torresi con forte fede non hanno mai preso in considerazione l’idea di spostarsi altrove ed abbandonare la propria terra in cambio di un’altra ubicazione: si rimboccano le maniche e ricostruiscono la loro città attribuendole il motto della fenice, uccello sacro agli antichi Egizi, “Post fata resurgo” (”Dopo la morte risorgo”).

Le date che hanno segnato Torre del Greco

Due sono le date delle eruzioni più importanti che hanno segnato il destino della città di Torre, quella avvenuta nel 1794 che troncò la cima del Vesuvio a causa della violenza eruttiva, e quella del 1861, anno che lega i Torresi ad una delle tradizioni più importanti, rimasta in vigore ancora oggi.

Nel giugno del 1794 violente scosse di terremoto, seguite da un boato assordante, diedero inizio ad una delle eruzioni più devastanti per la città: sul versante occidentale del cono si formarono nuove fessure: alcune sputavano fuoco, altre invece pietre incandescenti e altro materiale piroclastico, mentre sui fianchi del vulcano scendeva lenta la lava viscosa che imponente si faceva spazio, annientando tutto ciò che trovava sul suo cammino per poi inghiottire lentamente la città nascosta sotto ad una nube densa di cenere.
Arrivata al centro storico nel giro di sette ore, la lava vulcanica seppellì sotto di essa gran parte della città, eccetto il campanile della basilica di Santa Croce, che fu sotterrato dalla lava per 14 metri. Successivamente fu presa dai Torresi superstiti (circa 15000 riuscirono a mettersi in salvo con la fuga) e dall’allora vice parroco Vincenzo Romano (attualmente Santo) l’iniziativa di ricostruire la basilica e di innalzare il nuovo campanile partendo dai resti di quello precedente. Ancora oggi il vecchio campanile che per un terzo fu inghiottito dalla colata lavica è conservato all’interno di quello attuale, con l’orologio fermo alle tre del mattino, l’ora che segnò l’inizio di un incubo che finì dopo nove interminabili giorni.

Anche quella del 1861 fu un’intensa eruzione distruttiva, a causa del sollevamento del suolo di circa un metro e mezzo che fece crollare tutti gli edifici della città; a mare invece si formarono delle fumarole che provocarono la morte di notevoli quantità di pesci, ma fu grazie al miracoloso intervento dell’Immacolata Concezione, la cui statua venne posta ai piedi della colata lavica, che l’eruzione si arrestò. L’anno seguente, l’8 dicembre 1862, i Torresi fecero un voto per onorare la Vergine Immacolata, promettendole di portare la sua statua in processione su un maestoso carro per tutto il paese, in cambio della protezione dagli eventi nefasti sulla città di Torre del Greco. Tutt’oggi la processione è molto sentita dai portatori del carro e da tutti i Torresi che seguono il sacro percorso per le vie della città raccogliendosi in preghiera.

I vantaggi del vivere in un’area vulcanica

La continua attività vulcanica del Vesuvio nel corso dei secoli ha reso il terreno molto fertile per le coltivazioni: ricordiamo che di origine vesuviana è il famoso pomodorino del Piennolo del Vesuvio DOP, di un colore rosso intenso come il magma che scorre nelle vene del sottosuolo e di una caratteristica forma appuntita “a pizzo” alla base.
Il pomodoro giunse a Napoli come omaggio al re Ferdinando IV da parte del vicerè del Perù, che lo fece coltivare nei territori più fecondi del paese, ed oggi è una prelibatezza esportata in tutto il mondo. Il terreno dona forte mineralità anche al vino facilitandone la coltivazione di viti, producendo così una delle eccellenze tipiche del posto, il Lacryma Christi. La leggenda narra che Lucifero allontanandosi dal Paradiso, ne rubò un pezzo, generando così il golfo di Napoli e successivamente riconosciuto da Cristo, che pianse per il dispiacere versando le sue lacrime sulle pendici del Vesuvio. Un paese che affonda le sue radici tra storia e miti, antiche tradizioni e nuovi sapori che prendono il sopravvento in tutto il mondo.

Dal rosso del magma al rosso del corallo

Avendo un popolo prevalentemente di pescatori, in quanto prima il centro storico era situato nella zona portuale del paese, Torre del Greco è la città del corallo per antonomasia, la custode dell’arte dell’oro rosso. Nel 1805 un borghese di Marsiglia di nome Martin arrivò a Torre con l’intento di vendere corallo, ma il fato volle che, innamoratosi di una torrese, rimase in città per aprire una vera e propria azienda di corallo, di cui Ferdinando IV di Borbone incoraggiò la produzione. Così cominciarono ad aprirsi piccole botteghe gestite dalle mogli dei pescatori, che si dedicavano incessantemente alla manifattura del corallo mentre i loro mariti ne erano a pesca: una lavorazione (quasi) tutta al femminile!
Un’amante storica del corallo e dell’incisione dei cammei, conchiglia molto preziosa, fu Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone Bonaparte e moglie del re di Napoli Gioacchino Murat. Si racconta infatti che la regina appassionata ai gioielli torresi regalò a suo fratello una spada interamente decorata di corallo (oggi visibile al museo di Fontainebleau, in Francia).

Torre del Greco è portavoce di arte sin dall’antichità, spaziando dall’arte culinaria, alla pregiata manifattura di gioielli e pietre preziose. Il velo di mistero e di pericolosità che avvolge questo posto assume un valore poetico, una corrispondenza di amorosi sensi tra i Torresi e il Vesuvio, accomunati dall’energia e dalla vitalità che sono entrambi capaci di sprigionare, con il fuoco nelle vene ed il blu del mare negli occhi, uniti in un unico abbraccio come le reti intrecciate dei marinai.

Foto: Anna Paolillo

A proposito di Anna Paolillo

Progetto e realizzo nuovi orizzonti attraverso forme d'arte e comunicazione: ho un debole per i classici, la poesia e la mia stilografica. Ho fatto della tannicità la mia formula di poesia. Laureanda presso la facoltà di Lettere Moderne (Na).

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