Il taedium vitae: fra letteratura e arte

Il taedium vitae: fra letteratura e arte

Le origini del taedium vitae

Nella storia antica le manifestazioni del taedium vitae sono moltissime e coinvolgono diversi ambiti, come: la trattatistica medica, la letteratura, la filosofia e l’arte. Uno dei primi testi ad affrontare questo tema, infatti, è il codice ippocratico, in cui il taedium vitae è considerato una vera e propria patologia. Secondo Ippocrate, il corpo umano è caratterizzato da quattro umori: la bile nera, la bile rossa, il sangue e il flegma, che possono trovarsi in equilibrio tra loro quando un corpo è sano, e in disequilibrio quando uno di essi predomina sugli altri, causando la malattia. Quando prevale la bile nera, invadendo tutti gli organi, il disequilibrio che ne deriva provoca un abbandono delle forze, la tristezza, l’apatia, fino ad arrivare al desiderio di morte. Risulta, dunque, interessante considerare il nome che definisce questa patologia: nel manuale ippocratico, infatti, è nominata con il nome di melancholìa, dalle parole greche mèlaina, cioè nera e cholè, cioè ovvero bile
Molto più tardi, Freud identificherà il taedium vitae come una malattia psicologica.

Il taedium vitae in Seneca, Orazio e Agostino

L’opera di Seneca in cui emerge significativamente il tema del taedium vitae, inteso alla maniera leopardiana come “insoddisfazione”, è il De tranquillitate animi. Anneo Sereno, il destinatario dell’opera, è annoiato dell’esistenza, sconvolto dalla morte di suo fratello e indeciso se dedicarsi agli affari (negotia) o all’otium. Seneca, allora, suggerisce all’amico di trovare un equilibrio tra i due modi opposti di affrontare l’esistenza: Sereno non deve farsi travolgere dall’eccessivo attivismo, né isolarsi completamente dalla vita civile. Ecco, dunque, che secondo il nostro autore, ottimo conoscitore dell’animo umano, l’ideale supremo del sapiens è l’assenza di turbamento, la serenità dell’animo e l’esercizio perpetuo della virtus.

Il tema del taedium vitae trova molte connessioni anche in altri autori, che prima e dopo Seneca affrontano il medesimo tema. La prima connessione è da individuare in autore già noto: Orazio; la seconda, in uno più tardo: Agostino
Orazio ci parla di strenua inertia, una condizione di torpore interiore, una smania, fonte di continua inquietudine. Tuttavia, il tema del taedium vitae si lega alla commutatio loci: il viaggio, come tentativo di superare il tedio. Ma si tratta di un tentativo vano, perché l’anima non si rassegna con lo spostamento. Seneca, infatti, ritiene che l’unica soluzione sia il possesso di sé, capace di far superare il senso di instabilità e di timore.
Questo senso di rifugio interiore ritornerà anche in Agostino, che riprende il linguaggio senecano, trasponendolo nel linguaggio cristiano. Il luogo di pace che si trova nel profondo di se stessi, che indicava Seneca, viene riletto in chiave cristiana come il luogo in cui avviene l’incontrò con Dio.

Il taedium vitae in letteratura

La noia è uno dei temi principali della poetica leopardiana. A differenza dell’accezione moderna, per Leopardi, la noia è: «il più nobile dei sentimenti umani e il maggior segno di grandezza e di nobiltà, perché è la prova tangibile dell’aspirazione dell’animo umano a un piacere illimitato che gli è affine». Insomma, il sentimento di tedio misto alla frustrazione è una conseguenza alla perpetua tensione dell’uomo verso l’infinito.

Un altro rappresentate della letteratura italiana che ha affrontato il tema della noia, è stato Eugenio Montale. In Spesso il male di vivere ho incontrato, Montale fornisce la sua visione di taedium vitae. All’interno del componimento, tale condizione viene espressa attraverso tre immagini: il rivo strozzato, la foglia riarsa e il cavallo stramazzato. L’autore è stato sicuramente influenzato dalla visione di Baudelaire; egli, infatti, è stato colui che ha reso popolare il termine spleen: una noia esistenziale, un disinteresse totale per il vivere, uno stato di profonda malinconia.

Di seguito il testo:

Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

La letteratura moderna affronta il tema della noia, intesa ancora una volta come insoddisfazione e inadeguatezza verso l’esistenza, anche con Jean-Paul Sartre. La nausea, una delle opere più celebri dell’autore, è il termine che Sartre utilizza per indicare l’incapacità di definire, di dare un ordine alle cose. Tutto, compresa l’esistenza stessa, diventa qualcosa di troppo, di insostenibile. Con La nausea, Sartre ha dato vita ad un capolavoro della letteratura mondiale e, assieme a Camus, è diventato uno dei principali esponenti dell’esistenzialismo.

Il taedium vitae nell’arte

«Invece di abbandonarmi alla disperazione, ho optato per la malinconia attiva, per quel tanto che mi consenta l’energia, in altre parole ho preferito la malinconia che spera, che aspira e che cerca a quell’altra che, cupa e stagnante, dispera» Queste le parole di Van Gogh, rivolte a suo fratello Theo. Parole che esprimono la necessità di una malinconia intesa non come arresa totale nei confronti dell’esistenza, ma come fuoco di vita che ogni giorno si compie e ci permette di dare un senso alla nostra esistenza.

Fonte immagine: Wikimedia Commons

A proposito di Francesco Pollio

Studente di Lettere Classiche presso Università degli Studi di Napoli Federico II. Appassionato di poesia, teatro e musica. Fervido lettore, mi incuriosisce tutto ciò che riguarda il mondo antico.

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