Epicuro e il raggiungimento della felicità

Epicuro e il raggiungimento della felicità

Per introdurre la figura di Epicuro ci serviamo proprio delle sue parole che, sintetizzano perfettamente sia il nuovo modo di intendere la filosofia, tipico delle scuole ellenistiche (IV a.C.), in netta opposizione con il filosofeggiare aristotelico, sia il pragmatismo intrinseco nella sua stessa definizione: «Chi dice che non è ancora giunta l’età di filosofare, o che l’età è già passata, è simile a chi dice che la felicità non è ancora giunta o è già passata».

Nell’Epistola a Meneceo, Epicuro apostrofa così la corrispondenza tra il meditare e la felicità. Questa pratica non attinge ad un’età precisa, né ad una categoria individuata di persone – attraverso fonti posteriori sappiamo che la scuola da lui istituita accoglieva indistintamente schiavi e pensatori – nell’ottica in cui la filosofia sia da intendersi come consolazione e rimedio ai turbamenti dell’anima: l’equilibrata rassegnazione di fronte alle avversità. Supponiamo, dunque, uno spostamento di fulcro orientato verso una visione “antropologica” della riflessione filosofica, intimistica, orientata alla cura individuale, piuttosto che all’esterno, complici gli eventi politici che sconvolgono il cittadino della polis del tempo. 

Epicuro e l’etica

Abbiamo parlato di felicità perché quando si pensa ad Epicuro, fondante è la riflessione sull’eticaLa felicità è meta indiscussa e vero fine dell’esistenza umana e si consegue nell’imperturbalità dell’anima, che egli chiama «atarassia». L’animo deve essere sereno ed equilibrato, libero dalla ϕοβία (fobia, “paura”). Quali sono le paure a cui si riferisce? 

1)  «Il più terribile dunque dei mali, la morte»: l’uomo teme di morire perché ha una concezione errata o comunque esasperata della morte, che Epicuro classifica come semplice evento fisico. Perché preoccuparsi dell’attesa di un evento – ciò che ci fa più paura è l’attesa della morte, più che la morte stessa – se, quando avverrà, noi già non saremmo più? È chiaro che, in questo caso, Epicuro molto si discosta dalla tradizione dell’immortalità dell’anima postulata da Platone precedentemente, oltre ad invitare a limitare la preoccupazione per un futuro nel quale la nostra anima si sarà già dissolta.

2) Il dolore: si può neutralizzare il dolore prendendo coscienza del fatto che quest’ultimo non è un fatto assoluto, destinato a durare molto nel tempo. Quando esso si perpetua a lungo, significa che può essere sopportato, perché, altrimenti, arriverebbe la morte ad esimerci da un travaglio insostenibile. Se ciò non avviene, diventa quasi un compagno di vita, un elemento cronico e che, conseguentemente, perde di valore. 

Il raggiungimento della felicità

A questi principi è collegato quello del piacere. Lungi dall’essere assimilato all’edonismo, il piacere epicureo è rivolto alla ricerca di sensazioni la cui privazione provocherebbe sofferenza e dolore.  Epicuro si riferisce ai cosiddetti desideri naturali e necessari, quelli attribuiti alla sete, alla fame, al freddo. Essi, tuttavia, non sono da confondere con quelli dettati da «vana opinione» (la gloria, la fama) i quali, effettivamente, non ci libererebbero dall’angoscia. Si tratta di una soddisfazione esistenziale che si libera di una serie di precetti, ma anche dai valori morali superiori, che impediscono il raggiungimento dell’agognata felicità. Una felicità scarna, sì, ma autentica e priva di condizionamenti. 

Fonte foto: Freepick.com

A proposito di Diana Natalie Nicole

Studentessa di Letterature Comparate, sostengo la continuità tra filosofia e letteratura, con qualche benigna interferenza di linguistica, arte e cultura.

Vedi tutti gli articoli di Diana Natalie Nicole

Commenta