Con il termine italianizzazione facciamo riferimento a tutti quei provvedimenti che fanno parte di un progetto politico messo in atto, in alcuni casi mediante apposite leggi, dal regime fascista durante il periodo del ventennio. Quando parliamo di procedimenti, accenniamo alle diverse questioni linguistiche che, secondo il regime, dovevano essere modificate o assestate: bisognava intervenire sul dialetto che, secondo il regime, era utilizzato troppo frequentemente; bisognava attuare una quasi totale eliminazione di termini provenienti da altre lingue e prendere misure di adozione dell’italiano in territori in cui c’erano minoranze linguistiche, in zone slavofone o tedescofone.
La mistica fascista (così era denominata la serie di credenze e le correnti di pensiero proprie del Fascismo) sosteneva il mito dell’italianità, secondo cui essere italiano era un onore ed un privilegio: questo mito attraversava tutta una serie di nozioni e la lingua era una di queste.
Minoranze linguistiche e toponomastica
Per il regime Fascista, la lingua era uno strumento di unione e coesione del popolo: l’adozione dell’italiano, a discapito dei dialetti e delle altre lingue nella penisola, era di fondamentale importanza per Mussolini per unificare sotto un unico idioma la propria gente. Il processo di italianizzazione nelle regioni in cui, di base, si parlava un’altra lingua rispetto alla lingua nazionale, le cosiddette zone a minoranza linguistica, fu uno dei primi interventi del regime: già dal 1923 si cercò di sradicare queste minoranze tramite la riforma Gentile, la quale prevedeva che, in tutti i territori italiani, la lingua di insegnamento sarebbe stata esclusivamente l’italiano.
Allo stesso tempo, per coloro che l’avessero richiesto, nell’attuale Friuli Venezia Giulia, in Südtirol o in Valle d’Aosta, per un breve periodo fu possibile apprendere una lingua secondaria. Tuttavia, nel 1928 fu nuovamente modificata la riforma e si decise che lo slavo ed il tedesco non sarebbero più state insegnate nelle scuole, in maniera tale da obbligare i bambini ad imparare esclusivamente la lingua italiana.
Nei territori del Friuli o del Trentino, l’italianizzazione della toponomastica è uno dei segni tutt’oggi ancora evidenti di quest’opera del Fascismo. Alcune volte il nome del comune veniva stravolto: Sterzing, di origine tedesca, diventa Vitipeno, il nome dell’accampamento romano di stanza in quella zona; altre volte veniva semplicemente tradotto il nome dal tedesco all’italiano, Pustertal diventa Val Pusteria; alcuni, come Postojna, Postumia, furono semplicemente italianizzati.
L’ostilità per i dialetti
Il processo di italianizzazione e di coesione linguistica si traduceva in un’ostilità nei confronti dei diversi dialetti. Dobbiamo ricordare che, nei primi decenni del 1900, la lingua ufficiale era l’italiano ma, a differenza di quanto si creda, esso era utilizzato pochissimo: negli incontri non ufficiali, nelle chiacchierate tra amici oppure in famiglia si parlava, in realtà, il dialetto. Quest’ultimo era troppo fortemente ramificato per essere smantellato da un momento all’altro: per comprendere quanto i dialetti fossero ben radicati in Italia, dobbiamo pensare, ad esempio, al fatto che lo stesso Re d’Italia Vittorio Emanuele III spesso colloquiava in dialetto piemontese, oppure che i libri di testo, i vecchi almanacchi, fossero spesso scritti in dialetto per aiutare lo studente a comprendere meglio. Tutto ciò, quindi, rappresentava un grande problema per il processo di italianizzazione del regime mussoliniano.
Per contrastarne l’utilizzo, dal 1925 il dialetto fu estromesso dall’insegnamento nelle scuole a favore dell’affermarsi dell’italiano. Molte volte, tutto ciò venne disatteso poiché gli stessi insegnanti non padroneggiavano bene la lingua italiana.
L’ostilità per le lingue straniere
La lotta contro la contaminazione della lingua italiana fu uno dei pilastri del regime fascista in termini di italianizzazione. I neologismi che provenivano dall’estero erano spesso parole inglesi, francesi e tedesche per cui il regime cercò in tutti i modi di ostacolarne la diffusione.
In che modo, quindi, disincentivare la popolazione ad utilizzare questi barbarismi? Dal 1923 furono varate diverse leggi che prevedevano sanzioni pecuniarie o tasse più alte per coloro che utilizzassero termini stranieri sulle insegne delle proprie attività commerciali e, dal 1926, si coniò l’espressione bonifica linguistica per indicare, appunto, l’epurazione di termini di lingua non italiana.
In realtà, mettere in pratica la teoria fu più complesso del previsto. Nel caso dei neologismi, ad esempio quelli riguardanti il calcio, era difficilissimo esprimersi esclusivamente in italiano poiché, essendo questo sport inventato dagli inglesi, la maggioranza dei termini calcistici erano, appunto, in lingua inglese. Ad esempio, nessuno chiamava quello sport calcio ma Football, perché in questo modo era stato importato dagli inglesi; allo stesso modo nessuno lo chiamava rigore, ma penalty.
Il processo di italianizzazione e, soprattutto, di epurazione di termini stranieri, era previsto già dai primi anni del 1920 ma in realtà procedette a rilento. La svolta si ebbe a metà degli anni 30′ in seguito all’invasione dell’Etiopia e alle sanzioni economiche: l’Italia si allontana sempre di più dalle potenze occidentali, avvicinandosi alla Germania di Hitler. L’evento ha avuto anche un importante effetto linguistico nel totale allontanamento dei termini inglesi e francesi dal vocabolario italiano. Questo distanziamento si tradusse, nel 1940, mediante apposita legislazione, nella proibizione d’uso di parole straniere «sia nelle intestazioni delle ditte industriali o commerciali e delle attività professionali», sia «nelle insegne».
Per sostituire i termini stranieri fu creata un’apposita commissione che abrogò all’incirca 500 termini inglesi e francesi, attualizzando un processo di italianizzazione, che avveniva in diverso modo. Per fare qualche esempio, alcune nacquero semplicemente italianizzando il nome straniero in cui la pronuncia era uguale ma la grafia diversa, come in Wafer, che diventa in italiano Vafer, oppure Bidet, che diventa Bidé; altre furono inventate modificando il termine originale e possono essere termini ancora oggi in uso, come Beefsteak che diventa Bistecca, Garage che diventa Rimessa, Chauffer che diventa Autista; altri invece sono caduti in disuso, Cocktail era Arlecchino, Boy-Scout era Giovane Esploratore, Bordeaux era Color barolo. Anche nell’ambito sportivo le parole furono inventate di sana pianta: lo stesso termine Sport fu cambiato in Diporto; Football in Calcio; Rugby era Giuoco della volata o Giuoco della palla ovale.
Voi o lei?
L’ultimo punto di questo articolo è dedicato all’uso ai pronomi allocutivi detti di cortesia, lei e voi. Il regime cercò in tutti i modi di abolire l’utilizzo del lei definendolo un modo troppo poco maschio, anzi molto «femmineo, sgrammaticato, straniero…» di rivolgersi ad un interlocutore. In effetti, l’utilizzo della terza persona singolare di cortesia non è una forma originaria che ritroviamo nella lingua italiana ma proviene dalla lingua spagnola che utilizza la forma singolare usted e plurale ustedes: tra il XV ed il XVI secolo, la Spagna colonizza parte del territorio italiano e, come detto, ne influenza anche la lingua. L’uso del lei, dal regime fascista, fu quindi associato ad una dominazione estera, come un qualcosa di estraneo da quel concetto di italianità citato all’inizio.
Nel 1938, sul Corriere della Sera, il giornalista Cicognani parlava dell’abolizione del lei. L’autore proponeva infatti «lo sradicamento e l’abolizione di un uso che non solamente urta contro la legge grammaticale e logica, ma è testimonianza […] dei secoli di servitù e d’abiezione.». Nello stesso anno, fu quindi imposta l’eliminazione del lei a favore del voi anche se, come spesso accadde, queste imposizioni non furono pienamente rispettate dalla popolazione data l’assurdità della questione. In alcuni casi, gli scrittori si prendevano gioco del regime con delle freddure o delle barzellette: un gioco di parole che divenne celebre sull’uso del pronome di cortesia fu quello di Totò, il quale affermò che da quel momento in poi non si sarebbe più detto Galileo Galilei bensì Galileo Galivoi.
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