Per l’edizione 2025 del Pompei Theatrum Mundi, va in scena al Teatro Grande di Pompei Lisistrata di Serena Sinigaglia.
«Fate l’amore, non fate la guerra!»
Così recitava uno slogan noto negli anni Sessanta. Provocazione assunta come manifesto per lo spettacolo Lisistrata di Serena Sinigaglia, rilanciando un’attualità fortemente necessaria ad un oggi in cui il senso della guerra incombe minaccioso a vista d’occhio. La pièce, in scena dal 18 al 20 luglio 2025, si rifà ovviamente alla drammaturgia antica di Aristofane, rielaborata da Emanuele Aldrovandi nella traduzione di Nicola Cadoni e diretta da Serena Sinigaglia, con le interpretazioni di Lella Costa (Lisistrata), Marta Pizzigallo (Calonice), Cristina Parku (Mirrina), Simone Pietro Causa (Lampitò), Marco Brinzi (Dracete), Stefano Orlandi (Strimodoro), Pasquale Montemurro (Filurgo), Giorgia Senesi (Nicodice), Pilar Perez Aspa (Stratillide), Irene Serini (Rodippe), Aldo Ottobrino (Commissario), Salvatore Alfano (Cinesia), Clara Borghesi (Beota), Zoe Laudani (Corinzia), Alessandro Lussiana (Ambasciatore spartano), Stefano Carenza (Ambasciatore ateniese), Giulia Quacqueri (Pace) e il coro composto da Clara Borghesi, Carlotta Ceci, Ludovica Garofani, Gemma Lapi, Zoe Laudani, Arianna Martinelli, Francesca Sparacino, Siria Veronese Sandre, Christian D’Agostino, Giovanni Costamagna.

La guerra, denunciata con la richiesta avanzata alla maniera di far commedia, di fare l’amore. Da qui, lo scontro titanico di due macrosfere: il maschile guerrafondaio, rovesciato e ridicolizzato, e all’opposto il femminile che tesse la pace, il piacere, l’amore appunto. Una dicotomia spesso ribaltata dalla regista, seguendo in fondo un gioco tipico della commedia e in realtà poco approfondito nella rappresentazione attuale di Lisistrata di Serena Sinigaglia – si pensi a Sime Pietro Causa che interpreta la bellissima e fertilissima Lampitò, o ad Aldo Ottobrino che sotto le sue vesti di commissario, che non riesce neanche a pronunciare la parola “donne” se non facendola precedere da conati di vomito, nasconde una lingerie sensuale. Ma è questa stessa dicotomia e il suo rovesciamento che apre questioni di genere riferite soprattutto al femminile, componente nucleare della drammaturgia, certo, al netto di una rielaborazione contemporanea. Se Aristofane avesse partorito il suo testo oggi, quest’ultimo sarebbe stato immediatamente etichettato come un proclama dell’empowerment femminile. E dell’antica drammaturgia viene colto questo potenziale comunicativo contemporaneo, rileggendola secondo una prospettiva femminista talvolta necessaria in opposizione al patriarcato. Lisistrata riesce a convincere le donne, ateniesi e non, a occupare la città per spodestare il comando degli uomini, affinché cessino la guerra. Come? Negando l’istinto più primordiale e terreno: il sesso.
Lisistrata di Serena Sinigaglia: la grammatica dell’amore attraverso la corporeità
Se pensare allo sciopero del sesso come soluzione alla guerra è paradossale, in Lisistrata di Serena Sinigaglia rientra in quella cornice molto più ampia di uno scandalo che possa smuovere le coscienze. L’escamotage terreno di quell’istinto umano, di quell’elemento più recondito nella concretezza corporea dell’essere umano, diventa strumento per riformulare una concreta grammatica dell’amore che parli agli strascichi violenti della guerra. Non a caso, sostiene la regista nelle sue note: «l’astinenza dall’atto sessuale non è mai descritta in quest’opera come un mero bisogno meccanico ma come naturale prolungamento, meravigliosamente concreto e dunque corporeo, di un caldo sentimento di unione e condivisione, che vuole la vita e non la morte. Di fronte ai continui femminicidi, alla drammatica quanto insopportabile discriminazione di genere, di fronte a quella che per certi versi mi appare oggi come una vera e propria crisi delle coppie etero (e forse di tutte le coppie, ma restiamo su quelle etero), Lisistrata ci suggerisce la strada: reimparare la grammatica dell’amore».
Una tangibilità che, talvolta, Lisistrata di Serena Sinigaglia esaspera – per esempio, nel gioco dell’astinenza, durante il quale viene accentuato comicamente la pronuncia fisica del fallo, assunto a simbolo di quella necessità mancata. Tale dinamica, da un lato, richiama le esigenze della commedia antica di suscitare il riso con un’estremizzazione in particolare corporea – dovuta poi anche a esigenze dello spazio aperto – e che, dall’altro lato, si sposa con gli intenti espressi dalla riattualizzazione di quest’ultima. Di conseguenza, si evince una natura pluristilistica tipica dei lavori di Aristofane e rimessa in scena con la pièce, dai toni alti e dall’eleganza di Lella Costa, alla rottura bassa, anche rozza, vincolata alla sensorialità – simbolico il discorso iniziale di Lisistrata nobile e motivazionale da vera leadership, spezzato dall’espressione «Il cazzo» pronunciata infine dopo una sapiente pausa. Inoltre, in questa corporeità fondamentale dello spettacolo, è altrettanto importante la sua ritualità collettiva. Non è un discorso nuovo, si sa che le rappresentazioni a quel tempo avevano una dimensione comunitaria, di una partecipazione sociale che ne permetteva un processo catartico di riflessione, in questo caso attraverso il riso della commedia. E più che mai nel testo in questione, il recupero e la conservazione fedele di tale tratto risulta fondamentale: allora, la quarta parete è inesistente, la scena attiva per gli spettatori e per il pubblico.
Considerazioni su una favola esilarante, da Aristofane a oggi
Lisistrata di Serena Sinigaglia non rompe mai effettivamente la cornice classica della commedia di Aristofane. Più che altro, il lavoro si concentra sull’estrapolare quelle potenzialità tematiche già insite nella drammaturgia antica, rileggendole sotto la lente di bisogni comunicativi contemporanei. E sulla base di ciò, viene enfatizzata quella grammatica dell’amore in realtà già presente. La chiave femminista, di denuncia della guerra e del patriarcato, ha prettamente un sapore di modernizzazione piuttosto che di innovazione. Infatti, per tutte le dinamiche sceniche spiegate fin qui – il plurilinguismo, la coralità, la componente ritualistica bestemmiata dal colore tipico della commedia, la fisicità esasperata – sono tutte in linea con lo spirito dell’opera di partenza. A questo punto, non si può parlare della sua moderna rappresentazione con l’aspettativa di una forma espressiva nuova, bensì la sua innovazione è insita in quest’aspetto conservatore che preserva la cornice scegliendo di creare il punto di contatto con il presente tramite la valorizzazione di certi aspetti contenutistici. Una scelta registica in parte comprensibile, che lascia sia Aristofane con il suo testo a parlare a un’attualità ferita.

Un dialogo con l’oggi che Lisistrata di Serena Sinigaglia affronta con la leggerezza: «Ho cercato leggerezza e grazia, anch’esse così indissolubilmente legate alla sfera del femminile, anch’esse portatrici di un messaggio semplice e rivoluzionario di pace» – spiega ancora la regista. Forse è questo il tratto meno compreso, o anche meno esplorato nell’esprimerlo da parte della rappresentazione. Una leggerezza a volte trasformata in un quid favolistico che, soprattutto nello scontro tra le coppie “anziane”, ha talvolta rallentato la dinamicità dello spettacolo probabilmente concentrandosi su un’eccessiva caratterizzazione. Un elemento, la caratterizzazione, che funge un po’ da croce e delizia: da un lato è funzionale ma dall’altro serve sostenerla in dei confini. Anche la significativa scenografia di Maria Spazzi, un grosso telaio da cui si diramano fili rossi, recupera un notevole impatto visivo (ecco, anche qui la corporeità), richiamandosi anche alla donna vero movimento che tesse come Penelope, ma sfruttata poco in un’idea scenica più elaborata. Insomma, la percezione è quella di una commedia la cui drammaticità poteva essere risaltata maggiormente, riuscendo a ottenere un effetto ancor più stridente e, quindi, più esilarante. Ma d’altra parte quella stessa leggerezza è da apprezzare in un intento più nobile di coinvolgimento.
Fonte immagini: Ufficio Stampa