Teatro kabuki e queerness: il genere nel Giappone dei Tokugawa

Teatro kabuki e queerness: il genere nel Giappone dei Tokugawa

A dispetto di quanto ritenuto, in Giappone, prima dell’inizio dell’era Meiji (1868) e dell’imponente processo di occidentalizzazione che ne ha stravolto la struttura politica, non solo l’omoerotismo è comunemente accettato, ma perfino regolato da un sistema, detto shudō, analogo alla pederastia greca, di cui il teatro kabuki è la massima espressione. In questo articolo esamineremo le origini di questa raffinata forma artistica, in che modo sia il riflesso di una società sessualmente emancipata, e come ciò si concretizzi sì a 360° gradi per quel che concerne la sfera maschile, rilevandosi però un enorme limite in quella femminile.

Origini del teatro 

Il teatro kabuki è il teatro popolare giapponese per antonomasia, mescola performance drammatica con danza tradizionale e musica. La sua origine viene fatta risalire al 1603, quando un gruppo di ballerine sotto la guida di Okuni (fondatrice storica del kabuki) allestisce uno spettacolo sul fiume Kamo in secca, a Kyoto, stregando il pubblico con la sua stravaganza. Il kabuki rimane un teatro prettamente femminile fino a quando, nel 1629, alle donne viene vietato di esibirsi, dal momento che la loro bellezza rende folli i clienti che si contendono le varie attrici. Poco risolve il divieto dal momento che, in virtù della shudō, anche gli attori maschi e giovani divengono bersaglio del pubblico, ma a loro viene poi imposto semplicemente di portare il taglio di capelli proprio degli uomini adulti, in modo da rendersi meno attraenti. Fatto sta che da lì in poi il teatro kabuki diventa prerogativa degli uomini, a cui viene concesso il privilegio di immedesimarsi in personaggi maschili e femminili indiscriminatamente, dando sfogo alla propria creatività e queerness nel senso più ampio del termine.

Teatro kabuki e queerness: chi è l’on’nagata

L’attore del teatro kabuki che interpreta ruoli femminili si chiama on’nagata (forma di donna) e deve sottoporsi a una vera e propria trasformazione fisica, atta a raggiungere l’armonia delle forme dell’altro sesso: trucco, costumi e parrucche sono molto pesanti e possono già essere considerati opere d’arte a sé. Il trucco dell’on’nagata (kumadori) richiede anzitutto una base bianca, sulla quale poi dipingere delle linee di colore rosso, blu e/o marrone atte a mettere in risalto le rughe d’espressione. Sulla base del ruolo del personaggio, ogni corpo è un prototipo di vis erotica e trasmette un tipo di sensualità specifico, e il costume costituisce il motore della performance di genere. Si tratta di un processo creativo che, per le tecniche adoperate e per l’estremizzazione della femminilità, ben ricorda quello delle drag queen, sebbene quest’ultima forma artistica non necessariamente confluisca nel teatro e nella recitazione.

 E le donne che fine hanno fatto?

Non dimentichiamoci, tuttavia, che, quella che nasce come forma artistica puramente femminile, nell’arco di cinquant’anni si converte in monopolio dell’uomo. Lo shogunato concepisce le donne come mezzo per procreare, il legame tra queste ultime (soprattutto le attrici, relegate al fondo della scala sociale) e prostituzione, è indissolubile nell’era Tokugawa, soprattutto dal momento in cui le donne vengono estromesse da quella che è la loro arte e si ritrovano costrette a cambiare mestiere. Sebbene l’uomo, anche al di fuori del teatro kabuki e nella quotidianità, goda di tutto il diritto di esprimere la propria libertà sessuale, indipendentemente dall’età e dal genere del partner, gli stessi privilegi non possono applicarsi alla donna. A essa viene proibito esibirsi per “incitazione alla prostituzione”, e in quanto potenziale fonte di disordini che avrebbero invertito il modello gerarchico di stampo confuciano (almeno in teoria) imposto dai Tokugawa. Con la medesima giustificazione, agli uomini viene semplicemente imposto di radersi il capo. L’omosessualità femminile è mal vista, le testimonianze in letteratura sono esigue e i vivacissimi quartieri di piacere costituiscono, per le cortigiane, sì una possibilità di prestigio e guadagno, ma anche un vero e proprio cerchio infernale da cui faticano a uscire.

Per concludere, ci tengo a far conoscere il teatro kabuki, una forma artistica performativa spesso confusa con altre connazionali (vedasi il ) e a mostrare un quadro del Giappone ben diverso da quello che comunemente ci si immagina oggi, a causa dell’egemonia del modello culturale occidentale che stigmatizza tutto ciò che non è considerato norma e che può, in qualche modo, frenare i ritmi acceleratissimi della procreazione e della produzione, quindi tutto ciò che è queer lato sensu. È doveroso, altresì, ricordare che il kabuki nasce come manifesto di ribellione da parte di un gruppo di ballerine che decidono, a un certo punto, di indossare abiti maschili e cimentarsi in una danza sfrenata. Pertanto, anche in quella che può apparire come la più libera ed emancipata tra le società, la donna rimane sempre succube dell’autorità dell’uomo.

Fonte immagine: Wikimedia Commons (藤崎智也)

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